Militarizzazioni

Il caro prezzo dell’economia di guerra

Andrea Licata
  Gli Stati Uniti non hanno nemici ai propri confini ma il mondo è pieno delle loro basi militari overseas (oltremare), centinaia e centinaia di postazioni avanzate, un network dove “il sole non tramonta mai”. Come fa il governo USA a mantenere questo impero di basi? Facendolo pagare ad altri, caricando cioè i paesi ospitanti, o meglio occupati, delle spese di mantenimento delle truppe USA di stanza all’estero.
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I cittadini residenti in Italia, si è scoperto, ma ancora in pochi lo sanno, ne pagano il 41%. Pagano di più solo Germania e Giappone. Anche così si mantiene il leggendario complesso militar – industriale, una piovra tentacolare che non ha mai smesso di crescere, mantenendo ben stretti i suoi tentacoli laddove gli interessi sono più forti. Un paese occupato, magari con le armi atomiche, non è certamente libero: attraverso queste basi si influenza, come vediamo, la politica estera e militare di altri Stati. Non è poco.

Perché quindi ancora l’Italia? Sia chiaro, le basi USA in Italia, sono oggi dichiaratamente basi di guerra rivolte contro i civili del Sud del mondo. La penisola fa comodo per diverse ragioni: la riduzione dei costi appunto, l’”ospitalità” politica, gli scarsi controlli. Nel pacchetto promozionale per le truppe che partono al fronte la possibilità di un soggiorno in Italia è un ottimo biglietto da visita per il reclutamento. C’è poi la posizione geopolitica favorevole ai militari: al centro del Mediterraneo l’Italia rischia di veder rafforzata il ruolo di piattaforma di lancio per le nuove guerre, che mirano ad avanzare il fronte esterno del capitalismo. Una prospettiva da brivido, altro che dialogo euro mediterraneo fra i popoli! Le basi militari USA, una sorta di progetto separato e calato dall’alto, si concentrano nei paesi ricchi di risorse energetiche e nelle potenze industriali, come appunto Italia, Giappone e Germania. Dovrebbe farci riflettere anche il fatto che la deroga ambientale, ossia la possibilità di inquinare senza troppi controlli, è un altro dei criteri molto congeniali al Pentagono.

Le basi USA consumano inoltre enormi quantitativi energetici (gratuiti al 98%), acqua e danneggiano l’ambiente in maniera a volte molto grave, tanto che i costi della bonifica delle basi overseas erano tre preoccupazioni del Pentagono. In questo caso attraverso un accordo favorevole, questi costi sono spesso elusi: succede infatti che il governo USA vanti le “migliorie apportate al territorio” al momento della chiusura. Possiamo pertanto affermare con in Italia certezza i civili pagano al complesso militar industriale centinaia di milioni all’anno per queste installazioni. Alcune conseguenze? Quelle di rischiare il coinvolgimento nei prossimi conflitti bellici: le contraddizioni politiche tra le dichiarazioni di pace e questi atti di governo sono sotto gli occhi di tutti.

Il prezzo che Vicenza rischia di pagare è altissimo: la città, già fortemente militarizzata, perde una grande area verde e le prospettive di avviare progetti a favore di un’ economia civile e sostenibile, rischiando di diventare capitale delle nuove guerre piuttosto che città d’arte di fama mondiale.

L’area del Dal Molin si appresta ad essere letteralmente svenduta. Al Pentagono risulta oggi utile pubblicizzare ai propri dipendenti la possibilità di vivere in un’area attraente, come compensazione della destinazione finale, il fronte.

La posizione del governo italiano risulta poco comprensibile anche partendo da un’ottica moderata. Appoggiare il governo Bush, oltretutto indebolito, non è una politica ragionevole: la base è dichiaratamente rivolta contro Africa e Medio Oriente.

Gli unici realisti sono i movimenti per la pace, i veri estremisti sono evidentemente i sostenitori delle guerra preventiva del Bushismo, che passa attraverso la costruzione di questi accampamenti in un logica “basi guerre basi guerre” che rischia di vedere i civili intrappolati in un’economia di guerra. Malgrado le negativamente sorprendenti notizie che giungono da Roma la partita è ancora aperta. Se uno dei criteri è l’ospitalità, non pare che questa a Vicenza ci sia. Attraverso i boicottaggi economici e le azioni nonviolente di massa si possano oggi raggiungere risultati interessanti. Il movimento vicentino ha studiato ed è maturo: sa bene che le basi hanno un costo altissimo ed era già pronto a sostenere forme di conversione preventiva dal militare al civile della Caserma Ederle, che porterebbe veri benefici diffusi, anche occupazionali, come dimostrano i tanti precedenti nel mondo.

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