Noi che siamo contro la pena di morte, a proposito di democrazia americana esportata con le armi, noi che siamo stati contro la guerra inventata e ingiusta contro l`Iraq, dopo dieci anni di criminali sanzioni contro quel popolo, dobbiamo dire forte e chiaro: salvate il tiranno. Per almeno tre buone ragioni.
Perché il processo non costituisce un avanzamento della giustizia internazionale ma fa del diritto internazionale carta straccia. Perché la sentenza non aiuta ad approfondire il reale ruolo del regime di Saddam Hussein ma al contrario azzera la verità storica. E infine perché la pena di morte per il rais non è un passo avanti nella pacificazione dell`Iraq, ma una discesa agli inferi della guerra civile.
Il processo è stato una farsa dal suo incipit, quando è diventato l`unica giustificazione per una guerra altrimenti fallimentare. Dove i «termini procedurali» a dir poco hanno ripetutamente vacillato. Invece di una giustizia internazionale, con il mondo a giudicare le tante malefatte di Saddam, abbiamo visto all`opera prima le truppe d`occupazione che lo hanno catturato, poi una corte unilaterale che ha fatto il resto. Una vera e propria difesa non c`è mai stata: gli avvocati di Saddam sono stati intimiditi, hanno subìto attentati – quando non sono stati assassinati. Ricordiamo che quel processo si è svolto a partire dal 2005, l`anno che ha segnato l`inizio della fine per le sorti delle truppe occupanti angloamericane e per la violenza endemica in Iraq. Si poteva processare Saddam diversamente, attraverso una corte internazionale delle Nazioni unite, magari all`Aja. Ma gli Stati uniti che amano i processi teatrali, disprezzano invece il Tribunale penale internazionale. Anzi, semplicemente non lo riconoscono.
Così la sentenza di morte, ora confermata e definitiva, appare come una affrettata e formale cerimonia per mettere una volta per sempre una pietra sopra alla storia del regime di Saddam Hussein e alle connesse connivenze americane. Perché quel regime non avrebbe mai prosperato senza il sostegno degli Stati uniti che all`epoca dei crimini contestati a Saddam – l`uccisione di 140 sciiti a Dujail, il massacro di migliaia di curdi – erano i primi alleati del rais di Baghdad. La verità è che c`è almeno una sedia vuota sul banco degli imputati accanto al tiranno: è quella di George W. Bush e della sua famiglia petrolifera.
Non parliamo né di Abu Ghraib né dei 650mila morti iracheni secondo stime recenti e ufficiali americane, che dimostrano una responsabilità criminale quanto se non più grande di quella attribuita al tiranno iracheno. No, parliamo proprio dei capi d`imputazione per i quali Saddam sarà probabilmente impiccato, che vedono come complici e mandanti proprio le Amministrazione statunitensi. Chi, infatti, se non l`amministrazione Reagan inviò da Saddam Hussein nel 1983 il diplomatico Donald Rumsfeld che poi sarebbe diventato ministro della difesa, a portare armi e sistemi logistici per impegnare l`Iraq in una guerra defatigante contro il temibile Iran degli ayatollah? Non era sottinteso ed esplicito, come rivelò April Glaspie l`ambasciatrice americana a Baghdad subito defenestrata dopo le ammissioni, che dopo l`impegno anti-iraniano, costato milioni di morti, c`era una qualche «legittimità» nella pretesa irachena sulla «provincia del Kuwait»? Chi, se non aziende militari americane ed europee, fornì armi letali di distruzione di massa, gas e armi chimiche, in quel periodo al tiranno iracheno? Al punto che poi l`intelligence americana negli anni Novanta recuperò le installazioni fornite smantellandole a nome dell`Onu? Chi se non Bush padre, quando le società petrolifere Usa diventarono le principali acquirenti dell`oil iracheno – impedì nel 1988, con uno dei suoi primi atti pubblici, con un veto, le sanzioni del Congresso Usa all`Iraq per l`uso dei gas ad Halabja? Chi, se non Bush padre, fermò l`invasione dell`Iraq nel 1991 davanti alle paludi di Bassora, preferendo tenersi Saddam – «il nostro figlio di puttana» – piuttosto che gli infidi sciiti filo-iraniani che, intanto, erano insorti sicuri dell`aiuto americano?
Infine, sul destino del corpo di Saddam si gioca la residua possibilità di pacificare l`Iraq disceso ormai in una guerra civile per la spartizione del paese che fa più di cento morti al giorno. Mentre gli sciiti esultano, i sunniti covano ulteriore rancore e ingrossano le fila degli insorti. Ed esulta Al Qaeda nemico giurato del regime secolare del rais. E il presidente iracheno, il curdo Talabani, vorrebbe tenerlo in vita perché giustizia sia fatta, ma per i crimini contro i curdi. Quando la sentenza di morte sarà eseguita e Saddam sarà stato promosso al rango di «martire», il solco scavato tra le anime del popolo iracheno sarà più profondo di una ferita mortale.
Il Manifesto, 28 dicembre 2006