Il dialogo è allargato a tutti, d’altronde l’intenzione è di opporsi alla logica del conflitto che per sua natura allinea, costringe allo schieramento, alza i toni del dibattito e lo condanna all’insuccesso. E chi potrebbe meglio intuire la costrizione al coinvolgimento di due giovani israeliani di 25 e 27 anni che all’età di diciotto, per legge, sono stati chiamati alle armi.
Avichay e Noam sono schierati per forza di cose, sono soldati che hanno servito il loro paesi nei territori occupati palestinesi. Sono israeliani, hanno sparato e certo non sono stati pacifisti.
Ciò nonostante, forti della critica alla loro esperienza, accolgono l’invito della presidente della Commissione sviluppo del Parlamento Europeo, Luisa Morgantini e vengono a Bruxelles per presentare il loro progetto, “Breaking the silence”, sorto da pochi anni per denunciare i danni delle atrocità perpetrate dall’esercito israeliano nei territori palestinesi occupati. E questo, nel linguaggio bidimensionale delle guerra, vuol dire presentarsi come anti-israeliani, nemici della loro patria. A ricordaglielo ci pensa una ragazza israeliana che fa uno stage al PE, presente all’incontro: “Così facendo non fate altro che fare del male al nostro paese. Non presentate un quadro completo della situazione, la questione è molto più complessa”.
Le risponde Avichay: “Negli anni ho imparato che è impossibile dare un quadro esaustivo di un conflitto. Si è sempre portati a cadere da una o dall’altra parte. Ma non mi dovete fraintendere: Criticare non vuol dire demonizzare, spesso significa avere la questione più a cuore di altri”.
Continua Noam: “Avevo appena 23 anni quando mi sono trovato alla testa di un battaglione di 250 uomini pronti a sparare al mio comando. Potete intuire la perversione che un tale potere può causare nella mente di un giovane. Lo strazio mentale a cui si è sottoposti quotidianamente al check-point, la paura, il potere, la stanchezza fisica sono tutti ingredienti di una miscela esplosiva. Ciò che denunciamo, oltre al crimine della occupazione in sé, è la degenerazione morale che ne deriva e che ci colpisce in prima persona. La nostra società ne è la prima vittima”. “Se abbiamo a cuore la sorte dei nostri figli”, segue Avichay, “non possiamo strare in silenzi. Per questo abbiamo fondato Breaking the Silente. Se non facciamo cadere il muro di silenzio che separa le vite dei soldati ei territori e le loro vita di ritorno a casa il processo di deterioramento sociale diverrà ineluttabile”.
Perché sia così difficile dare voce a quel che veramente sta succedendo, pur non essendo censura, non è un mistero. Alcuni presupposti come il carrierismo, l’indottrinamento patriottico, lo spirito di emulazione, l’oppressione gerarchica militare sono le consuete condizioni che alimentano il militarismo e che fanno tenere la bocca chiusa ai soldati. Ma forse il fattore più rilevante è il senso di colpa represso d’istinto per pura necessità di sopravvivenza. “Quello che vediamo noi soldati nei territori è talmente terribile”, spiega Avichay, “da non poterlo comunicare alle loro famiglie. Come posso raccontare a mia madre di aver sparato contro bambini o di essere entrato nelle case distruggendo tutto quello che c’era. Il prezzo da pagare sarebbe quello di rivivere quel senso di terrore e malessere a cui si cerca di sopravvivere ogni giorno di servizio”.
L’ audizione è servita anche per presentare il film “Breaking the silence”, quaranta minuti di agghiaccianti testimonianze di soldati israeliani che mentre prestavano servizio militare nei territori palestinesi, hanno filmato e fotografato i comportamenti dei soldati israeliani durante gli arresti, le perquisizioni, le demolizioni di case, le lunghe file ai check-point, le botte date a giovani palestinesi.
Testimonianze di soldati che come Noam ed Avichay hanno trovato il coraggio di parlare della loro vita e di rompere il silenzio. “ Questi ragazzi, sono la nostra speranza”, conclude Luisa Morgantini, “ non tradiscono il loro paese, è il governo israeliano che tradisce i valori ai quali sono stati educati, quelli della democrazia, della giustizia, quelli di credere che ciascuno e ciascuna, abbia il diritto a vivere liberamente, senza oppressione militare. Incontrarli è sentire l’umanità e l’amore necessari per continuare anche noi a cercare una soluzione che possa finalmente vedere esistere nella realtà due popoli e due stati che coesistono con Gerusalemme capitale condivisa dai due popoli e dal mondo. Grazie Noam, Grazie Avichay”.
Nicola Flamigni, Bruxelles – Ottobre 2006