Pace, sicurezza e sviluppo

Per il ritiro dall’Afghanistan

Simonetta Rossi
  Uno spaccato della realtà afghana osservata da vicino. Riflessioni, domande e ragioni possibili per optare per il ritiro delle truppe italiane dall`Afghanistan e da tutti gli scenari di guerra che attualmente ci vedono impegnati.
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PER IL RITIRO DALL`AFGHANISTAN: fra i paradigmi della sicurezza e lo sviluppo.

In questi ultimi giorni non è mancato inchiostro per scrivere delle ragioni della pace da parte di fonti autorevoli che chiedono il ritiro dalle missioni militari legate alle politiche di occupazione. Andrebbero, invece, esposte con maggior chiarezza, e sottoposte al pubblico giudizio, le ragioni per continuare a far parte degli eserciti di occupazione militare, nonostante detta partecipazione ci possa presentare conti sempre più in rosso, sia per l’escalation di morti sia per quella di spesa.

In effetti, una prima domanda andrebbe posta ai pragmatici governanti che in molti abbiamo votato senza troppo entusiasmo: chi ci può garantire quale è il limite oltre il quale l’Italia non si coinvolgerà militarmente in una escalation del conflitto in Afghanistan? Mentre la partecipazione alla guerra è, indubbiamente, una decisione politica, la “dose” di guerra da assumere viene decisa dal campo di battaglia. Sarebbe sufficiente un attacco alla nostra base militare ad Herat in Afghanistan per provocare un aumento di presenza e capacità militare? Sarebbe sufficiente essere su una delle vie di accesso al confine con l’Iran per non essere più in condizione di liberarsi dall’”assuefazione” bellica?

Il rischio è che l’assuefazione bellica generi una spirale in ascesa di desiderio di coinvolgimento oltre qualsiasi limite. Oltre il limite della distruzione e della vergogna. La distruzione di vite umane, di valori umani che si credevano universali, di colpevoli ed innocenti, di “noi e loro”. Della vergogna che si dilata sempre più nella perdita dei valori. E se questo è il rischio della droga bellica, sarebbe perlomeno giusto conoscerne le ragioni, quelle vere ovviamente.

E qui viene la seconda domanda ai nostri governanti, vecchi e nuovi: Quale è il contributo dell’Italia alla guerra? E quale è il contributo della guerra all’Italia?

La risposta a queste domande va data senza coprirsi dietro il falso paravento della “missione di pace”. Prima di tutto perché la Pace è un concetto complesso che va definito nella sua totalità ed, in secondo luogo, perché le missioni di pace devono essere portate avanti da personale civile e non da personale militare armato di portaerei, carri armati, blindati ed armi da guerra.

La tanto discussa commistione fra civile e militare implica, in questo caso, che il secondo assume primazia sul primo e, quindi, rende palese che la nostra missione è di guerra e non di pace.

Guerra e pace non sono, inoltre, concetti unilaterali ma relativi. Suona, in effetti, un poco ridicolo dichiararsi in missione di pace con un apparato bellico in un paese che sin dalle sue origini è, più o meno, in guerra permanente. Per la popolazione afgana siamo tutti una forza d’occupazione straniera, nessuno escluso. E, del resto, non potremmo essere altro.

Profeti delle false promesse ci siamo alleati con vecchi e nuovi oppressori – criminali di guerra tanto gli uni come gli altri (membri del Fronte Unito e Talebani) -, abbiamo ricostruito lo stato su un modello che nulla ha da invidiare alla ricostruzione mafiosa del nostro dopoguerra (guarda caso sponsorizzata dagli Stati Uniti), abbiamo lasciato che i signori della guerra, alleati con i poteri mafiosi internazionali, mantenessero il controllo delle aree di minor interesse strategico ed in cambio abbiamo chiesto il controllo della via del gas e delle frontiere con l’ex-URSS, la Cina e l’Iran (con il Pakistan il discorso è a parte).

Abbiamo poi giocato alla ricostruzione, facendo poco e, spesso e volentieri, male. Come ben mi fece notare un Ministro del governo Karzai – durante la mia ricerca in Afganistan su una delle componenti strategiche del settore della sicurezza nell’ambito della ricostruzione dello Stato e del processo di costruzione della pace (peace-building)- lo stato afgano, povero di risorse proprie, non ha ricevuto dalla comunità internazionale l’appoggio finanziario necessario.

In effetti, a detta di uno dei tanti imprenditori stranieri favoriti dai lauti contratti della “ricostruzione”, in Afganistan non si sta costruendo nulla di nuovo, ma ci si limita a ripare o ricostruire l’infrastruttura costruita dai Sovietici durante la loro occupazione. Se si entra nel merito del meccanismo dei finanziamenti si nota facilmente che lo stato afgano, in sé, ha poco a che vedere con la “ricostruzione”. La maggioranza dei fondi stanziati dalla comunità internazionale (72.2% ) è stata erogata al settore privato e pubblico internazionale – le imprese private straniere, le agenzie delle N.U., le ONG internazionale e locali, le società di consulenza internazionale, i contractors che forniscono servizi di sicurezza, i centri studi, e così via -, limitando così l’intervento dello stato e minandone la sua legittimità quando, allo stesso tempo, si dichiara di volerla ricostruire (e si promuovono elezioni ad hoc).

E quello della ricostruzione dello stato è forse l’aspetto peggiore della “ricostruzione” e quello che più ci riguarda direttamente. Le basi della ricostruzione dello stato afgano sono state tracciate dall’Accordo di Bonn del dicembre 2001 – firmato dalle parti che hanno “vinto” la guerra contro i Talebani, ossia il “Fronte Unito” e la coalizione guidata dagli Stati Uniti – che in praticata ha stabilito un sistema di “spartizione del potere” per cui l’aristocrazia tribale, rappresentata dal presidente Karzai, e l’elite istruita hanno dovuto condividere il potere con i signori della guerra.

Una “coalizione” di governo che poggia su un’altra difficile realtà, quella di una nazione che ha ormai messo in discussione, se mai l’ha avuta, l’identità e la cultura comune. In effetti, la letteratura esistente sull’Afganistan concorda sul fatto che, durante i 25 anni di guerra, qualità che in precedenza hanno avuto funzioni coesive si sono indebolite, ed elementi di divisione quali l’appartenenza etnica e tribale, la lingua e la religione sono prevalsi sul senso di nazione.

E’ su questa controversa realtà che si sono installati due poteri: quello interno della composita coalizione del governo Karzai, e quello internazionale della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Ed è così che in Afganistan nulla è cambiato ed il paese è rimasto intrappolato dal suo eterno presente.

Nonostante ciò si sono tenute conferenze dei donatori e forum sullo sviluppo economico e si sono stanziati fondi per la “ricostruzione”. Ma, mentre l’agenda di ricostruzione si sta muovendo lentamente, ostaggio di interessi in competizione fra loro, l’economia dell’oppio è cresciuta rapidamente sino a costituire un terzo del PIL (oppio incluso) solo nel 2003. Allo stesso tempo, l’agricoltura di sussistenza, il lavoro giornaliero migrante, le alleanze famigliari strategiche, la subordinazione ai nuovi padroni, ai signori della guerra ed ai loro comandanti, incaricati del controllo feudale del territorio, sono gli immutabili meccanismi utilizzati dalla popolazione per guadagnarsi i mezzi di sussistenza.

Quale processo di pace si può reggere su tali premesse?

Non ci deve meravigliare, quindi, che la maggioranza degli Afgani interpreti il presente con la nostalgia del passato. Ad equivalente situazione di sviluppo, durante il regime talebano corrispondeva una maggior sicurezza. Per il resto, il sistema di repressione e subordinazione è lo stesso o, secondo i parametri di analisi degli afgani in estrema povertà, persino peggiorato. A dir il vero, molti ricordano con favore anche il regime del presidente Najibullah che appoggiava la sua politica populista di riconciliazione nazionale sui fondi stanziati dai Sovietici subito dopo il loro ritiro.

La storia dell’Afganistan è, quindi, più complessa di quella che ci propagandano di un gruppo di barbuti cavernicoli al governo di una nazione omogenea ma inesistente. Del resto, Talebani e signori della guerra altro non sono che espressione del sistema globale della pace-neoliberale sostenuta dalla “guerra al terrorismo”. Ma non sono certo “scarti” del sistema, ne sono, invece, attori di primo piano.

Come si potrebbe reggere una “guerra al terrorismo” senza terroristi? E come potrebbe sostenersi il sistema della globalizzazione neo-liberale senza lo spauracchio della “sicurezza”, quindi della necessità di un nemico comune ed unico da combattere che ci deve vedere tutti stretti intorno alle nostre …missioni? L’unico problema è che il nemico “vero” siamo noi, i marginali, i precari, quelli in favore della Pace e dello Sviluppo, delle relazioni fra i popoli basate sul rispetto e l’autodeterminazione, quelli dello slogan “consumare meno, consumare meglio, consumare tutti”. E questo spiega le ragioni per cui dalla Somalia all’Afganistan, e non solo, i signori della guerra governano stati e territori con il consenso di Washington ed i suoi alleati.

L’assenza di legge, i massacri di civili, i crimini contro l’umanità, la distruzione di massa, operate da queste variabili aleatorie della globalizzazione neo-liberale che sono i signori della guerra vengono subordinate al loro valore strategico-militare di temporanei alleati del nuovo progetto di sicurezza promosso da Washington ed alleati.

Così, in Afganistan, paese dove le variabili aleatorie sono intercambiabili, si procede con tentativi di negoziazione, alleanze e fallimenti con chi non si può vincere. Dopo aver speso una cifra considerevole per finanziare le cosiddette “milizie irregolari del Pentagono” per combattere contro i Talebani, riorganizzatisi nel sud del paese, Washington ha cercato la via della negoziazione offrendo loro di partecipare della spartizione del potere nel governo. Strategia fallita a quanto pare che, però, la dice lunga sull’affidabilità strategico-militare del nostro alleato e sulle possibili difficoltà future della nostra missione militare. Ma, forse, ciò che bisognerebbe chiedere ai nostri vecchi e nuovi governanti, è se i Talebani sono veramente l’unico gruppo armato che sta sfidando il governo afgano e la presenza internazionale nel paese. Ed una risposta negativa (ossia non sono solo i Talebani) complicherebbe, ulteriormente, il nostro impegno militare.

Bisogna, inoltre, considerare il ruolo che potrebbero giocare i paesi vicini che, a detta di studiosi dell’Afganistan, nonostante abbiano firmato un trattato di non interferenza stanno ancora appoggiando diversi gruppi di opposizione al governo Karzai all’interno dell’Afganistan.

Infine, sembra che stia ormai venendo meno il ruolo degli Stati Uniti di “collante” della coalizione di governo, mentre si stanno intensificando gli attacchi dei gruppi armati contro le forze di occupazione. Del resto i metodi utilizzati dalle “milizie irregolari del Pentagono” e dalle forze armate della coalizione alleata non avrebbero potuto portare ad altro.

Bombardamenti, uccisioni di civili, abusi sulla popolazione, prigioni di massima sicurezza, repressione ed oppressione da una parte e lentezza, scarsità ed ineffettività della “ricostruzione” dall’altra non possono certo godere delle simpatie della popolazione.

Su questo panorama, alquanto triste, ci siamo inseriti anche noi, nella nostra duplice veste di missione militare e di collaboratori alla ricostruzione dello stato. L’Italia, oltre alla partecipazione alla missione ISAF, ha assunto l’incarico della ricostruzione del settore giudiziario e collabora finanziariamente anche ad altre iniziative, fra le quali il reinserimento socio-economico degli ex-combattenti. Della ricostruzione del settore giudiziario si conosce poco. Quando si chiede negli ambienti “alleati” della situazione del programma, si ricevono in cambio compassionevoli sorrisini che vorrebbero far sottintendere che un paese come il nostro, dove politica, economia e giustizia vengono percepite dalla comunità internazionale come un insieme dai confini nebulosi, ha poco da offrire alla ricostruzione del settore giudiziario afgano.

Le difficoltà a procedere sulla riforma del settore giudiziario vengono quindi addossate alle deficienze di base dell’esecutore (cioè l’Italia) e non alle scelte politiche effettuate durante l’accordo di Bonn che hanno escluso qualsiasi ipotesi di giustizia transitoria.

Se è ben vero che responsabilità in alcune delle deficienze e lentezze del programma esistono, è anche vero che non si può riformare la giustizia senza fare un’operazione di giustizia. La commissione della verità avrebbe, in effetti, dovuto prevedere l’installazione di una commissione della verità per fare chiarezza sui tanti crimini di guerra commessi in Afganistan. Nessuno, a parte la Commissione Afgana per i Diritti Umani e le vittime civili che ad essa si rivolgono, si è mai dimostrato interessato a scoprire tombe e fosse comuni (e campi minati), che avrebbero accusato non solo i Sovietici ed i Talebani, ma anche i signori della guerra del Fronte Unito, gli Stati Uniti e la loro coalizione.

A questo punto le domande sorgono spontanee e chiedono chiarezza sulla genesi dell’affidamento del compito di ricostruzione del settore giudiziario all’Italia, sullo stato di avanzamento dei lavori, sulla valutazione di impatto, su quali sono i piani di sviluppo futuri e di come questi contribuiscano alla costruzione della pace. Ma, soprattutto, bisognerebbe capire qual è il vincolo, nella pratica, fra la nostra missione militare ed il compito di ricostruzione dello stato che ci siamo assunti. Anche a queste domande dovrebbero rispondere i nostri vecchi e nuovi governanti.

Gli scarsi risultati raggiunti nella ricostruzione dell’intero settore della sicurezza sono, comunque, indicative delle due agende fra loro in contraddizione portate avanti dalla comunità internazionale. La comunità internazionale in Afganistan sposta costantemente la sua agenda fra la “guerra al terrorismo” e la “ricostruzione nazionale”, dove la prima ha sempre goduto di maggior peso politico e risorse economiche.

E’ quindi ovvio che non vi è un impegno reale da parte della coalizione alleata alla costruzione della pace in Afganistan e che gli interessi di geo-politica internazionale prevalgono sulla ricostruzione della legittimità e sostenibilità dello stato. I paradigmi della sicurezza e dello sviluppo in Afganistan non si sono voluti conciliare, e gli interessi della prima sono prevalsi sulle potenzialità del secondo, lasciando le masse impoverite al loro destino di sopravvivenza fra la coptazione nei feudi dei signori della guerra, l’ineffettività di un governo senza potere e la presenza di forze di occupazione straniere.

E’ anche ovvio che gli interessi della sicurezza di cui si parla poco hanno a che vedere con la sicurezza dello stato e dei cittadini afgani. Si tratta, invece, della sicurezza del sistema della globalizzazione neo-liberale e dei suoi difensori. E per chi ha attraversato l’Afganistan, la Palestina, i Balcani ed altre guerre questo non è uno slogan, ma una triste realtà.

Le molteplici proposte uscite in questi giorni sul come rendere più umana una missione che non ha nulla di umano servono solo ad occultare ciò che tutti sappiamo: in Afganistan ci siamo per servire ad altri interessi, siano questi un gasdotto, il controllo delle frontiere con l’Iran, l’espansione asiatica o altro ancora.

Ed in Afganistan non ci possiamo e dobbiamo rimanere, nemmeno comprando oppio al sud del paese come propongono i Verdi o con questo nostro programma di giustizia a metà, a meno che non iniziamo a lavorare veramente per una politica di sicurezza e sviluppo che siano complementari e fautrici di un circuito virtuoso di Pace.

E se è Pace quella che vogliamo, perché non facciamo nulla per questo nostro tormentato Mare Nostro?

Queste poche righe non pretendono essere esaustive del quadro dell’intervento italiano e della coalizione guidata dagli Stati Uniti in Afganistan e molto meno pretendono dare una visione globale della variegata e complessa realtà afgana. Queste poche note riportano uno spaccato della realtà osservata da vicino, pongono delle domande e vogliono dare delle ragioni per optare per il ritiro delle truppe italiane dal paese.

Ma vogliono anche porre una grossa questione che è quella della Pace, della sicurezza e dello sviluppo, invitando a sostenere il ritiro delle truppe italiane da tutti gli scenari di guerra e invitando a fermare i massacri operati sulla popolazione civile, dalla Somalia, all’Irak, alla Palestina, all’Afganistan.

Simonetta Rossi, 13 Luglio 2006

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