“Per quanto ritenuto barbaro, il longobardo Autari riconosce lo Stretto come simbolo di limite… toccando con la punta della lancia la colonna che sorgeva dal mare sotto costa, la definisce come confine dei domini del suo popolo”: così Pier Giovanni Guzzo conclude il suo saggio compreso nella raccolta che va sotto il titolo “Lo Stretto di Messina nell’antichità”. Con l’egida della società “Stretto di Messina”, quattro curatori – Francesca Ghedini, Jacopo Bonetto, Andrea Raffaele Ghiotto e Federica Rinaldi – hanno messo insieme trentasette contributi, che fanno il punto degli studi su quella particolarissima area mediterranea, fra la prima colonizzazione greca e l’età tardoantica, passando per ambiente, fonti letterarie e iconografiche, commerci, viabilità, territorio, città, religione e produzione artistica.
La curatela di un volume che si sviluppa appunto su trentasette contributi e per 527 pagine non è cosa semplice, anche se si è in quattro a reggerla. Così può capitare di sottoporre a tormento Jean Pierre Houel, pittore e viaggiatore francese del Settecento: passi che si usi indifferentemente “Houel” (pagine 271 e 331) e “Hoüel” (pagine 7 e 319), ma certo lo “Huel” di pagina 5 bene proprio non va, così come “un area” senza l’apostrofo della stessa pagina. In un testo di oltre cinquecento pagine e di tanti autori diversi inoltre le ripetizioni sono all’ordine del giorno, di cui una particolarmente “tragica”: in passi vari del volume, annegano un paio di volte i trentacinque fanciulli del “choros” messinese che, insieme al loro maestro e ad un suonatore di flauto, si recavano da Messina a una festa dei Reggini e vengono travolti da un naufragio. Meno grave è sicuramente l’affondamento – replicato anch’esso in punti diversi del libro – di un’imbarcazione che trasportava pezzi architettonici per una piccola basilica bizantina: il relitto presso Marzamemi ha restituito il suo carico e oggi la Sicilia ha recuperato altri “pezzi” della sua storia del sesto secolo dopo Cristo.
In ogni caso, al di là di queste “curiosità”, del pessimo “taglio” della foto aerea di Reggio (p.226), di alcune tavole senza “legenda” e del fatto che manchino le schede per “riconoscere” gli autori dei contributi, rimane abbastanza inspiegabile la scelta dei curatori da parte della società editrice. Senza nulla togliere ai curatori stessi, alla loro valida attività scientifica e di ricerca, sulla via Annia in Veneto e sugli scavi della scuola padovana a Creta (con uno sfortunato episodio determinato dalla contrarietà del dio Eolo), sulle città romane in Sardegna e sui “tappeti” musivi di Aquileia, probabilmente affiancare loro qualche altro studioso specialista dell’area dello Stretto non sarebbe stato tanto sbagliato. Evidentemente chi dirige la società editrice ripone più fiducia in esperti dell’Università di Padova, che non di quelle siciliane e calabresi dove questi studi hanno una solida tradizione.
D’altronde il bellissimo volume soffre di una fortissima discrasia fra i saggi, molti dei quali di altissimo livello, e la presentazione e la premessa, rispettivamente di Pietro Lunardi e Pietro Ciucci. La sfida lanciata dall’ambiente e dalla storia si può ricostruire scientificamente, ma è “vinta, già da tempo, da tecnici ed ingegneri”, per il primo; “L’archeologia costruisce ponti verso le antiche civiltà… La Società Stretto di Messina costruisce un ponte… ampliando la cultura dell’ingegneria”, per il secondo. Il “discredito” rivolto verso le pagine degli studiosi (segnate con numeri arabi) dalle pagine introduttive (segnate secondo tradizione in cifre romane) non potrebbe essere più tagliente: gli storici sono assimilati a dei simpatici eruditi, con le loro filologiche manie di lettura delle fonti, tutti proiettati nel passato e per giunta incapaci di vedere come “Tutti coloro che si sono trovati, nel corso della storia, tra Scilla e Cariddi, luogo di miti e leggende, hanno immaginato e sognato un ponte che unisse le due rive dello Stretto” (P. Ciucci, Premessa, in F. Ghedini-J. Bonetto-A.R. Ghiotto-F. Rinaldi (a cura di), Lo Stretto di Messina nell’antichità, Stretto di Messina, Roma 2005, p.X).
Tutto è stretto, anche i tempi di “montaggio” del ponderoso volume: la curatrice Francesca Ghedini ringrazia i “colleghi che si sono prestati a stendere i loro contributi in tempi assai stretti”. Le eventuali manchevolezze del volume sono giustificabili “in un’opera a più voci portata a termine in tempi tanto brevi”: sempre Ghedini. Ma perché tutta questa fretta? Un osservatore “maligno” potrebbe essere sfiorato dal dubbio che forse Pietro Lunardi nel mese di settembre 2005, quando il volume è stato finito di stampare dalla Offset Invicta Padova, prevedeva che non sarebbe stato più ministro delle Infrastrutture, e che anche Pietro Ciucci non era più tanto certo del proprio ruolo di amministratore delegato della “Stretto di Messina”. Ma al di là delle malignità, un dato è di buon comune senso scientifico: non si sta col fiato sul collo a un progetto editoriale significativo e impegnativo come quello rappresentato dal volume “Lo Stretto di Messina nell’antichità”, che vuole disegnare una storia di lunga durata, e per certi versi ci riesce.
Contribuiscono in diversi a questa riuscita, a cominciare dal citato saggio di Guzzo sul porthmos, in cui l’episodio dei trentasette malcapitati del coro messinese annegati viene ripreso per dimostrare l’evento luttuoso fosse considerato un incidente, non un ostacolo per il “dominio” dello Stretto. Lo Stretto è un confine ma un confine sui generis, secondo Antonino Pinzone, “discriminante dal punto di vista istituzionale, ma di fatto sempre più inesistente”. Al termine del suo saggio poi però lo stesso autore non riesce a trattenersi, passando ex abrupto dall’età romana a quella contemporanea, facendo incarnare alla vicenda del Ponte sullo Stretto l’immagine di un’entità che, insieme, unisce e divide. Insiste molto più sull’ambiguità Irma Bitto, soffermandosi sulle fonti epigrafiche, testimoni del poros, via che unisce, e del porthmos, l’interruzione. Altri spunti affascinanti si trovano grazie a Michel Gras: “Lo Stretto è dunque tutt’insieme un crocevia ma anche un nucleo culturale. Il passaggio funziona soltanto se sul posto c’è una dinamica locale. Le città ci sono perché, senza le città, lo Stretto sarebbe un deserto culturale”. E deserto culturale Messina e Reggio non lo sono state quasi mai, fin dall’inizio della storia della presenza dei Greci con la loro peculiare tendenza “a sacralizzare lo spazio degli uomini”. Né deserto culturale avrebbe potuto esserci in un’area sempre disponibile ad accogliere elementi della civiltà orientale, come dimostra non soltanto la vicenda dei culti.
Giuseppe Restifo