E a volte i grandi principi sono scomodi da maneggiare. Pungono. Urticano. Fanno litigare. Ma esistono. E vanno difesi. Soprattutto quando e dove esiste anche la loro negazione organizzata. Si può parlare dei rapporti di un politico con la mafia in un paese in cui la mafia ha ammazzato decine dei migliori funzionari dello Stato di due generazioni? In un paese in cui, nella giornata dedicata alle vittime della mafia, occorre quasi mezz`ora per recitare e ricordare in pubblico il loro interminabile elenco?
In un paese che a molte di quelle vittime ha dedicato centinaia di strade, di scuole, di biblioteche, di centri sociali, di caserme, di aule di palazzi di giustizia? Non sarà elegante. Ma si deve parlarne. E il parlarne non è – vedi la maledizione delle parole che confiscano l`intelligenza – «giustizialismo». Al contrario è un fatto altissimamente politico. È politica che si carica delle sue responsabilità sgradevoli e a volte immani, invece di presentarsi sul palcoscenico di Sanremo a cantare la sua canzoncina acqua e sapone. No, non è solo una questione di età. È questione di senso delle istituzioni. È questione di messaggi civili, culturali. Di fare intendere ai cittadini che cosa è normale e che cosa è grave, nei comportamenti di un politico. Di spiegare che chi rappresenta le istituzioni non è un Arlecchino che può servire due padroni. O, passando da Goldoni ai testi sacri, che nessun uomo può servire insieme Dio e Mammona (Matteo, cap.VI).
Lo so, lo so. Si è formata nel mondo politico e dell`informazione un esercito (con tanto di artiglieria pesante) di sostenitori della piena e assoluta illibatezza morale di Andreotti. Per paradosso è composto proprio dai teorici intransigenti della necessità di non confondere politica e giustizia, di non fare coincidere il giudizio politico con quello penale. Per paradosso, dico, perché poi in realtà sono proprio costoro che sull`onda di una assoluzione o prescrizione penale vorrebbero automaticamente decretare una assoluzione (anzi una beatificazione) politica. Sono costoro che fanno coincidere perfettamente i due giudizi. Che amano – come disciplinate scimmiette – non vedere i fatti accaduti nella loro gravità morale e politica. Sono costoro che, nel loro «giustizialismo» estremo (la condanna penale come unica forma del giudizio umano), vorrebbero far derivare da una mancata condanna per prescrizione l`innocenza politica.
Eppure non è difficile capirlo. Se un eminente uomo politico avesse frequentato i futuri assassini di Marco Biagi, avesse conosciuto le loro intenzioni e con loro ne avesse garbatamente discusso, e poi, a omicidio realizzato, fosse tornato da loro e di nuovo ne avesse discusso (magari anche criticandolo) e poi per anni e anni avesse di tutto questo rigorosamente taciuto a magistrati e forze dell`ordine, anche di fronte a una sfilza senza fine di nuovi omicidi terroristici, voi che giudizio ne dareste, voi non giustizialisti intendo? Ecco, questo ha fatto, secondo una sentenza della Cassazione, Giulio Andreotti con i mandanti dell`assassinio di Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia e avversario del potere mafioso. Si è incontrato con i capi di Cosa Nostra prima e dopo il delitto, sapendo che loro ne erano gli autori. E le sue relazioni con l`universo mafioso non si sono fermate «nemmeno» a questo.
Basti la vicenda (sanguinaria anche quella) Sindona-Ambrosoli. Vero: Francesco Cossiga ritenne di fare di Andreotti un senatore a vita, carica onorifica che secondo la Costituzione può essere conferita a chi ha «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» (art. 59 della Costituzione). Ma già quello fu scandalo, benché inghiottito dall`atmosfera di complicità felpata che nasce in queste particolarissime occasioni dentro le istituzioni politiche. Fu scandalo perché semmai a illustrare la Patria per altissimi meriti sono stati esattamente gli uomini che hanno dato la loro vita per difendere noi e la democrazia dalla violenza della mafia. Ecco, il nostro Stato ha viaggiato sempre come una salamandra dentro questa «felice» ambiguità. Altissimi meriti verso la Patria (e medaglie d`oro alla memoria) per gli avversari della mafia. E altissimi meriti verso la Patria (e cariche onorifiche a vita) per chi con la mafia ha a lungo politicamente trescato.
La proposta di portare alla seconda carica dello Stato Giulio Andreotti è, letta in questa prospettiva, un pezzo dell`autobiografia della nazione. Una nazione che ha visto il suo ceto politico gioire alla notizia dell`assoluzione o della prescrizione. Felice, contento, esagerato, scamiciato, come per ricacciare indietro ogni senso di colpa. Psicanaliticamente sbracato nell`orda di manifesti affissi in tutta Italia per annunciare la lieta novella dell`innocenza del senatore a vita. Per dire a se stessi, con la faccia appiccicata allo specchio, di essere innocenti. Di non avere applaudito, di non avere ubbidito, di non essersi inchinati o alleati a un leader che intratteneva rapporti con i vertici di Cosa Nostra. Un grandioso processo di rimozione collettiva. Un`autoassoluzione di fronte alle tragedie di mafia. L`illusione di potersi pensare mondi da colpe. Come sistema politico. Come comunità di uomini e donne che fanno politica. Con le loro regole complici. Perché, come mi disse una futura vittima, «la mafia è così forte perché in questo paese una tessera di partito conta più dello Stato». O perché, come mi spiegò un collega di Rosario Livatino, il giudice ragazzino, «il fatto è che non siamo noi a esporci, non siamo noi a fare un passo avanti; il fatto è che nel momento decisivo sono tutti gli altri a fare un passo indietro».
Questo c`è dietro la reciproca opera di persuasione svolta in tante stanze e piazze e tivù sulla innocenza politica del sette volte presidente del Consiglio. E questo c`è dietro la proposta di mandarlo alla guida del Senato. Dietro l`imbarazzo di chi ascolta la proposta o l`aggrapparsi malinconicamente alla questione anagrafica. Dietro l`oblio incombente su quel che successe tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Dietro l`idea pazzesca che possa essere lui il nume tutelare di questa «Italia divisa». E che, lui regnante, si divise nel nome dei giusti assassinati. Ma la memoria non si placa e non si strozza, anche quando scorre quieta e amara nelle vite quotidiane. Non basta avere i Vespa e le tivù e i giornali schierati sulla trincea innocentista perché innocenza sia. Non basta gridare forte, affiggere manifesti, perché la realtà, la storia, venga cancellata. Non basta la vergognosa relazione della Commissione Antimafia (che ora si capisce ancora di più…) a purificare una delle storie politiche più controverse e torbide della nostra Repubblica.
Vorremmo vivere in uno Stato che ha un solo biglietto da visita. Che non reca su un lato la gioia per la cattura di Provenzano e sull`altro lato la beatificazione del senatore che fece conclave con i capimafia. È così assurdo chiederlo? È così insensato, inopportuno, sollevare la questione della natura, dei simboli, e dell`identità del nostro Stato, a ridosso del 25 aprile?