Era una mattina tiepida, quasi primaverile, quella del 7 marzo del 1947, quando davanti alla Prefettura di Messina lavoratori e sindacalisti si erano radunati per protestare contro l’applicazione – voluta dalla Giunta comunale guidata dal “qualunquista” Giuseppe Ciraolo – delle nuove imposte di consumo a carico dei generi di prima necessità e per la mancata applicazione del contratto nazionale, che stabiliva un aumento del 15 per cento ai lavoratori dell’industria.
In quegli anni Messina, città martire e medaglia d’oro, si stava lentamente risollevando dalla macerie della guerra. La Camera del Lavoro e i comunisti di Messina, che vantavano nella loro tradizione uomini del valore di Francesco Lo Sardo e Umberto Fiore, si stavano pian piano riorganizzando, e quella mattina erano riusciti a indire un’imponente manifestazione di protesta. Un decreto prefettizio aveva nel frattempo sospeso l’aumento delle imposte, ma sull’altro fronte delle rivendicazioni le controproposte dell’associazione degli industriali (che allora riuniva anche commercianti e artigiani) – cioè un aumento “in via transattiva” del 10 per cento – non avevano soddisfatto le richieste dei lavoratori che fecero, per questo, ricorso allo sciopero generale. Una manifestazione che vide l’adesione compatta dei lavoratori del settore metallurgico, meccanico edile e chimico, e con loro i disoccupati del settore cantieristico e circa tremila impiegati del Genio Civile che nei giorni precedenti avevano avuto degli scontri con la celere durante degli scioperi.
Quel giorno la città mostrava un volto inusuale: negozi chiusi e poche persone per strada. Soltanto da via S. Cecilia si udiva provenire un rumore sempre crescente. E’ lì, infatti, che si erano dati appuntamento i lavoratori, che già dalle otto continuavano ad affluire senza interruzione. Alle dieci e trenta il corteo cominciò a scivolare giù verso il Viale S. Martino e poi, sempre più ingrossandosi, verso l’altra grande arteria cittadina, la via Garibaldi. Alle undici, quarantamila lavoratori (secondo le stime del Pci) avevano invaso con le loro bandiere rosse la piazza della Prefettura. Sulla statua del Nettuno, che guarda fiera la magia dello Stretto, qualcuno aveva eretto simbolicamente una forca, mentre una delegazione mista di lavoratori e sindacalisti cercava di farsi ricevere dal Prefetto, che peraltro si era dichiarato indisponibile a qualsiasi incontro.
Quando da uno dei balconi si affacciò il viceprefetto Castrogiovanni, i dimostranti, secondo quanto riferisce la stampa, iniziarono “una fitta sassaiuola”, e da questo momento in poi gli eventi precipitarono drammaticamente. A fomentare le agitazioni vi erano, come ricorda il giornalista Sergio Palumbo in una sua inchiesta sulla “Gazzetta del Sud”, anche gruppi di provocatori monarchico-fascisti e alcuni agenti infiltrati. Un primo tentativo di forzare il cordone della polizia che cingeva l’ingresso della prefettura veniva respinto violentemente dalla “celere” della polizia, che quel giorno era armata di mitra e moschetti. Gli agenti spararono anche alcuni colpi a scopo intimidatorio. Un secondo tentativo veniva nuovamente respinto verso le dodici e un quarto. Questa volta gli spari furono più intensi e minacciosi.
Nessuno riusciva più a riportare la calma. I lavoratori, esasperati, si muovevano come un flusso nervoso di marea. Di fronte a loro, nel panico più totale, le forze dell’ordine avevano completamente perso il controllo della situazione, e fu a questo punto che un capitano dei carabinieri diede l’ordine di aprire il fuoco sui manifestanti ad altezza d’uomo: uno scontro che, secondo alcuni testimoni, fu affrontato dalle forze dell’ordine al grido di “Avanti Savoia”.
Improvvisamente ci furono degli spari. In terra rimasero, feriti a morte, il commerciante di calzature Giuseppe Maiorana di 41 anni e il manovale Biagio Pellegrino di 34 anni, padre di quattro figli. Entrambi militanti del Pci. Tra i feriti più gravi vi fu anche l’operaio Giuseppe Lo Vecchio di 19 anni, che morirà dopo dieci giorni di agonia. Lo scontro registrerà infine una trentina di feriti tra manifestanti e forze dell’ordine, tra cui sei carabinieri, uno dei quali riuscì a sfuggire a un tentativo di linciaggio in ospedale.
“Le forze dell’ordine spararono a freddo con i loro moschetti, senza alcuna ragione, dato che la folla stava aspettando in piazza tranquilla. Se dovevano avvenire incidenti, sarebbero avvenuti prima durante il corteo e non nella fase conclusiva. Fu un atto senza senso nato nel rovente clima anticomunista dell’epoca, basti pensare ai licenziamenti di operai di fede comunista o alle incitazioni repressive del governo nazionale”, ricorda con lucida passione Emanuele Conti, allora giovane dirigente del PCI messinese che fu tra gli organizzatori della manifestazione.
“La manifestazione del 7 marzo 1947 segnò una svolta per il partito comunista della città, che da partito chiuso e elitario si trasformò in partito di massa vicino alle istanze della gente comune grazie al rinnovamento voluto dal nuovo segretario Pancrazio De Pasquale. Un rinnovamento che portò al significativo aumento di sezioni e iscritti”, osserva Conti. Dopo la sparatoria, gli scontri continuarono più duri e intensi, perché i manifestanti esasperati reagirono con vigore a quell’assurda carneficina.
Il “Notiziario di Messina” dell’8 marzo presentò la vicenda con poco risalto, mentre un ignoto cronista invitava al “senso di responsabilità”. Lo stesso giornale registrò le prime indignate dichiarazioni di protesta, che provenivano tutte dalla sinistra. La Federazione del Pci di Messina emise un comunicato nel quale si parlava di “provocazione organizzata e premeditata dell’Arma che senza ragione alcuna ordinò di far fuoco sulle masse di lavoratori inermi”. Il Pci denunciò pure “una crescente e intensificata attività antinazionale di emissari monarchici e fascisti” che operavano tranquillamente a Messina. Erano gli antesignani di quelle frange estremiste che avranno una parte non secondaria nella storia dell’eversione fascista in Italia negli anni Sessanta e Settanta.
I fatti di Messina ebbero ampia risonanza nazionale. “L’Unità” dell’8 marzo titolò: “Si spara sul popolo a Messina: due morti e tre feriti gravi”. Molte furono le interrogazioni parlamentari, tra cui quelle di Fiore, Li Causi e Di Vittorio. Il Governo nazionale dispose immediatamente un’inchiesta e inviò a Messina l’Ispettore generale del Ministero dell’Interno Mormile, mentre il procuratore della Repubblica di Messina avviava il procedimento giudiziario che, come vedremo, si concluderà sette anni dopo, senza alcuna condanna.
Intanto, dopo lo sgomento iniziale, la città cercò di interrogarsi e esternare il proprio dolore. Come si legge sull’ “Eco del Mattino” del 9 marzo, molti edifici pubblici esposero la bandiera a mezz’asta e il Municipio dispose l’affissione di manifesti che proclamavano tre giorni di lutto cittadino, oltre a stanziare un sussidio di mezzo milione per ciascuna delle famiglie dei tre lavoratori caduti. Dopo gli esami autoptici, le salme vennero ricomposte nella camera ardente allestita presso la Cgil. Il pellegrinaggio di cittadini commossi durerà tutta la giornata di domenica, fin quando, in serata, la bare vennero portate nella chiesa dei Gesuiti.
Lunedì 10 marzo fu il giorno dei funerali. In piazza Cairoli, cuore della città, ottantamila messinesi aspettarono in silenzio il passaggio dei feretri di Giuseppe Maiorana e Biagio Pellegrino, mentre Giuseppe Lo Vecchio era agonizzante in una corsia dell’ospedale “Regina Margherita”. Le bare sfilarono avvolte nel tricolore e nelle bandiere rosse. Su quella di Biagio Pellegrino qualcuno depose il pezzetto di pane che gli era stato trovato in tasca il giorno dell’eccidio. Dopo la commossa e corale commemorazione popolare, si aprì il capitolo giudiziario e processuale lungo e doloroso, che oggi viene rievocato con puntigliosa precisione e partecipazione da uno dei suoi principali protagonisti, l’avvocato Giuseppe Cappuccio, autore del recente libro di memorie intitolato Frammenti della storia recente di Messina (Armando Siciliano Editore, Messina, 2003). Cappuccio, avvocato penalista, eletto per trent’anni nelle liste del Pci al consiglio comunale di Messina, rappresenta una delle bandiere più vivide della sinistra messinese, e memoria storica preziosa di tante battaglie civili e politiche della città.
Il processo venne celebrato nel 1954 e l’avv. Cappuccio, insieme ad altri colleghi – fra cui il parlamentare comunista Mario Assennato – assunse la difesa di parte civile della famiglie dei dimostranti uccisi. Dopo sette anni d’istruttoria, la procura di Messina chiese il rinvio a giudizio dei carabinieri ritenuti responsabili dell’eccidio.Il processo iniziò il 24 maggio 1954, nell’aula della prima sezione del Tribunale di Messina, davanti ad un foltissimo pubblico. Oltre ai due carabinieri e ai tre poliziotti accusati di aver sparato contro la folla, sul banco degli imputati sedevano anche dodici dimostranti, accusati di adunata sediziosa e resistenza aggravata. “Una specie di ammucchiata – scrive Cappuccio – per controbilanciare le accuse contro la polizia ed i carabinieri”.
Tutto il processo si svolse in un clima teso, dopo che il ministro degli Interni Mario Scelba aveva rifiutato all’autorità giudiziaria gli atti dell’inchiesta svolta dall’ispettore Mormile. “I giudici – scrive ancora Cappuccio – in quella occasione dimostrarono tutta la loro incondizionata acquiescenza al Potere”. Ci fu addirittura un arresto in aula, richiesto dal p.m. Rocco Scisca, e ordinato dal presidente della corte, Carlo Sgrò, ai danni di un operaio, accusato di oltraggio ad un commissario per avergli dato del bugiardo, e pertanto processato per direttissima e condannato a nove mesi di reclusione. Così, nonostante qualche edificante episodio (come la testimonianza del questore Garbo, che ebbe il coraggio di dire che non era necessario far ricorso all’uso delle armi), il processo andò avanti sino al 23 giugno 1954, tra reticenze, cavilli legali, e testimoni non creduti: fu presto chiaro che in quell’aula tutto si sarebbe fatto fuorché stabilire la verità e dare giustizia ai parenti delle vittime.
La conclusione fu, ovviamente, di assoluzione dei carabinieri e dei poliziotti per non aver commesso il fatto, come già si intuiva nelle richieste del PM Scisca, confermate nel processo d’appello.Una sentenza confermata anche in appello nel 1955. La morte di Giuseppe Lo Vecchio, Giuseppe Maiorana e Biagio Pellegrino restava pertanto un fatto “accidentale”. Macchia sanguinosa della Messina che si stava riprendendo faticosamente dalle ferite della guerra.
Sergio Di Giacomo e Giuseppe Ramires, 7 marzo 2006.