Nella seconda metà diciottesimo secolo, il lavoro era considerato una variabile indipendente del contesto economico: le persone potevano essere occupate o meno, vivere nell’oro o fra le immondizie, senza alcun riferimento –ufficialmente- al sistema economico prevalente. L’economia politica –secondo i liberisti alla Jean-Baptiste Say- era una scienza descrittiva e non valutativa. Contava –cioè- l’utilità: produrre significava creare utilità e il valore di una merce prodotta non era dato –secondo questo pensiero- dal lavoro necessario a produrla, ma dalla “valutazione contradditoria” tra colui che ne aveva bisogno e colui che l’aveva prodotta e la offriva. In generale, quindi, secondo questa impostazione, l’utilità di una merce determina la domanda e il suo costo di produzione la limita. Ergo, uno poteva vivere fra la spazzatura, senza che questo –ufficialmente- avesse a che fare con il sistema economico. Se proprio andava male, c’erano sempre le brioches. Questo si diceva, si pensava e si realizzava nella società del Settecento. Tre secoli fa. Vecchie idee? Concezioni arcaiche? Può darsi; intanto, però, nell’Italia del 2004, nella “Repubblica fondata sul lavoro” (art. 1), nella Repubblica che riconosce il lavoro come un diritto (art. 4) e stabilisce il diritto ad una retribuzione dignitosa per sé e la propria famiglia (art. 36), ci si può imbattere in decisioni della magistratura che sembrano rievocare, nella cultura di fondo e nei ragionamenti (parola forse forte in questo caso) di base, concezioni forse più settecentesche che del Terzo Millennio. In sostanza, giurisprudenze e delibazioni in cui il lavoro è visto quasi come un accessorio, un mezzo o un utensile, come ogni altro, che si può togliere o dare, su cui, in ogni caso, si può questionare, come fosse soltanto ed esclusivamente una merce qualsiasi, intercambiabile come altre e con valori quindi mutevoli nel tempo. Come un televisore, un dvd, un cellulare. Che il lavoro sia legato alla personalità, alla cultura, alle attese di vita e di crescita di una persona, non ne consta traccia: neppure, naturalmente, di quanto è sancito, di quanto è sotteso alle disposizioni della Costituzione. Ma sarà davvero importante, questo strano pezzo di carta, chiamato Costituzione, in questi tempi? Nulla di nuovo, diranno coloro che hanno messo in guardia dagli effetti del liberismo economico, in questa società impazzita: già, nulla di nuovo. Come nel ‘700. Come allora, il Potere fa quello che vuole. Esiste, infatti, una giurisprudenza, che dà vita anche ad un dibattito, molto interessante che vede impegnati prìncipi del foro, ben pagati dalle grandi imprese, i quali mettono in guardia da una pericolo, vero e presunto: che si possa dare ragione, “facilmente”, quasi “con leggerezza”, al lavoratore che, perso un posto di lavoro o anche un’opportunità di occupazione, chiede, con procedura d’urgenza (cosiddetto art. 700), il recupero proprio del suo lavoro e quindi -ovviamente e naturalmente- il proprio reddito. Già, perché, fino a prova contraria, il reddito da lavoro è la base della vita di una persona e di una famiglia. Questo, almeno, reclama l’ Intelligenza. Certo, nel ‘700 e ancor oggi ci sono gli eredi di cospicui patrimoni o di studi professionali avanzati, i fruitori di rendite immobiliari, i successori – per diritto ereditario – di posti dorati nelle redazioni di giornali e agenzie di stampa; purtroppo, però, questa non è la regola, perchè esistono anche – e sono tanti, sicuramente la maggioranza – i casi di persone che la vita se la guadagnano cercando chance (proprio come si dice nei paesi anglosassoni) e lavorando ogni giorno, secondo possibilità e opportunità che sicuramente vanno e raramente vengono. Ora, usando facoltà intellettuali normali, è evidente che – usando sempre una categoria del ‘700- per gli appartenenti a questi “ranghi” sociali, perdere un lavoro o un’opportunità, significa perdere un reddito certo e vitale, ergo, strettamente consequenziale, subire un danno. Per molta magistratura italiana, invece, così non è. E te lo spiegano pure. Come spiegare altrimenti quanto accaduto a chi scrive, quando ha chiesto alla cosiddetta giustizia di questa Repubblica “fondata sul lavoro”, che gli venisse restituito il proprio posto alla base di Sigonella, ingiustamente scippatogli da qualche mese? Si precisa e lo si precisa con orgoglio che trattasi di posto di operaio, nono livello, contratto a termine per il consorzio “Algese 2”: circa novecento euro al mese, notti comprese. Una bella esperienza a caricare e scaricare merci, un po’ – a mò di metafora, mica tanto poi lontana dalla verità – come fare il giornalista a Catania, con un bellissima e degnissima tuta blu: un lavoro regolare, come non capita quasi mai nella “Repubblica fondata sul lavoro”, almeno per quelli come chi scrive. Pertanto, scrivo questo articolo per quelli come me che ci sono incappati, in questa situazione e per quelli che ci incapperanno, in questa situazione da “Repubblica fondata sul lavoro”. Eppure, perdere questa opportunità, non rappresenta per questa magistratura un danno, o meglio come dicono i giureconsulti, un “periculum in mora”, ovvero del pericolo di danno in attesa del giudizio di merito sulla causa. Per la cronaca, oggi, per definire un giudizio di lavoro, in tutte le sue fasi, occorrono in media cinque anni. Naturalmente, nel frattempo, siccome il lavoro è soltanto una merce scambiabile e la “Repubblica fondata sul lavoro” di “sociale” ha soltanto il Movimento che fu, chi è “out” dallo scambio, può ricorrere a varie soluzioni per sopravvivere: prima i familiari, poi gli amici, poi il lavoro nero, poi gli usurai, spesso la mafia. In alternativa, c’è l’angolo della strada con il cappello in mano o un “posto” di lavavetri, sempre se non finisce multati dalle forze della legalità costituzionale, cioè quelli della Costituzione “fondata sul lavoro”. Stiamo esagerando? Ebbene, in data 17 giugno scorso, in una sua ordinanza, un tribunale siciliano ha scritto che “la natura temporanea del rapporto (contratto a termine per nove mesi, ndr) esclude la stessa configurabilità del necessario requisito del ‘periculum in mora’….; e ancora “…la giurisprudenza ormai prevalentemente rinviene l’irreparabilità del pregiudizio solo in casi eccezionali, quando la lesione del diritto privi il titolare della disponibilità di beni o servizi essenziali e non sostituibili…” Quali sono i “beni e servizi essenziali e non sostituibili”? Un nuovo fuoristrada o un chilo di pane? Un nuovo televisore o un chilo di carne? Un nuova cravatta o una bolletta della luce da pagare? Un giacca alla moda o un panino al prosciutto? “…in tale prospettiva – scrive ancora il Tribunale – il danno suscettibile di reintegrazione economica può assumere rilevanza, ai fini della concessione della tutela cautelare, solo in considerazione della concomitante sussistenza di una specifica situazione di grave disagio economico, nelle more del giudizio ordinario, che porterebbe (proprio così, è scritto al condizionale, ndr) ad un irreparabile pregiudizio alle fondamentali esigenze alimentari della persona e della propria famiglia; sul punto tuttavia nulla ha dedotto (e documentato) il ricorrente, che si è limitato ad opporre, assiomaticamente (proprio così è scritto, ndr), un ‘interesse vitale al rinnovo del contratto”. Domanda delle cento pistole: quando non si è visto che un lavoratore non abbia un interesse vitale al contratto di lavoro? Quando? Da quale pianeta arrivano queste decisioni? Di fronte a simili violente enormità, nessun altro commento è necessario. Marco Benanti