No Ponte

La lobby del Ponte, ovvero il club del cemento

Antonello Mangano
  L’obiettivo è ormai chiaro. Aprire i cantieri, poi si vedrà. La lobby del Ponte non ascolta la società civile e gli enti locali contrari ad un’opera dall’impatto devastante non solo sull’ambiente, ma anche sui conti pubblici e sulla vita delle comunità. I cantieri che interessano davvero non sono quelli principali ma le mille opere accessorie, le azioni compensative definite dalla legge speciale, i rivoli che dal fiume principale andranno a creare un modello di non-sviluppo che fa pensare al peggiore passato della Sicilia.
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“Ma il ponte crea posti di lavoro e commesse e il consenso di confindustria e sindacati. Forse è meglio pagarli per scavare buche e riempirle, non serve a nulla lo stesso, ma almeno non fanno danni.” Beppe Grillo, 13 ottobre 2005

Chi sono gli uomini, i volti, le storie che hanno gestito finora la progettazione e le gare del Ponte?

Sono i personaggi inossidabili di un’Italia da anni ’50, volti severi di democristiani pasciuti sulle poltrone dell’Iri, post-comunisti che hanno passato il loro tempo di compromesso in compromesso, fino alla cancellazione di qualunque diversità, fino ad essere indistinguibili.

Sarebbe un errore imperdonabile pensare al libero dispiegarsi delle forze di un mercato mondiale, che premia i migliori e punisce i mediocri.

Qui abbiamo di fronte un club esclusivo, una specie di maxi-lions del cemento riconducibile a pochi ambienti selezionati ed ad una geografia precisa: il Piemonte della Fiat, i palazzi romani degli istituti para-statali ma soprattutto – e forse per qualcuno sarà una sorpresa – l’Emilia, che tra imprese della galassia “rossa” e ditte familiari cresciute oltremisura è diventata la grande protagonista del circolo dei costruttori.

Sono uomini legati a doppio filo alla politica, trasversalmente rispetto a partiti e schieramenti, cresciuti nel culto delle buone maniere, della mediazione, della spartizione. Ridono dei conflitti di interesse, o degli accordi incrociati, perché sanno che alla fine – tolto via chi non sta al gioco – ce ne sarà per ciascuno, come già in passato.

Negli anni ’90, hanno vissuto più di un annus horribilis, e qualcuno ha visto la galera, ha dovuto frequentare i tribunali nella sgradevole veste dell’imputato, ha dovuto cambiare espressioni, denominazione sociale ed assetto societario ma alla fine oggi si presenta come se nulla fosse al giorno del rilancio, l’anno della Grande Opera.

L’Italia paralizzata dalla crisi vive la forte tentazione di guardare al passato, a quei cantieri mai terminati, a quelle colate di cemento che spesso era inutile, quasi sempre distruggeva l’ambiente ed il territorio, a volte arricchiva personaggi dal curriculum criminale rivoltante e non di rado lasciava sul terreno i morti ammazzati di una controversia mal risolta.

Ma portava, in un modo o nell’altro, denaro in tasca. All’operaio ed all’ingegnere, al politico ed al suo portaborse, al consulente ed al geometra.

Questi signori stanno tornando, ed in mancanza di una seria alternativa, potrebbero far valere le loro ragioni con facilità.

La brutta fine di Pontopoli

Tutta questa gente, quando legge Ponte, non pensa al manufatto da modellino, agli esempi virtuali dei computer. Meno che mai alla fattibilità, all`utilità effettiva dell`Opera.

A Pontopoli, quando si dice Ponte si pensa a: cantieri, studi e progetti, commesse, ingegneri, parcelle, movimento terra, tangenti sugli appalti, pizzo sul movimento terra, ricorsi, avvocati, interventi, subappalti. E, tanto per cominciare, espropri. Gli espropri dei terreni interessati all’opera.

Per alcuni sarà un grande affare, per altri l’occasione di raggranellare qualche soldo. Il politico sogna una vasta rete clientelare ed una carriera che lo porti dritto ad un sottosegretariato a Palazzo Chigi. Il professionista spera di raccogliere incarichi di consulenza, il costruttore vuole che riparta quel ciclo del cemento che tanto denaro ha portato in passato.

Ma nessuno tra questi, proprio nessuno, parla più dell’aspetto centrale della vicenda, e cioè se valga davvero la pena devastare un territorio, scacciarne di fatto gli abitanti, aprire le porte all’ingordigia della criminalità per guadagnare alla fine qualche minuto da Torre Faro a Cannitello.

Per l’opinione pubblica, infatti, il Ponte è la struttura ad alta tecnologia (o il mostro di cemento, secondo il punto di vista) che collegherà i due punti più vicini tra la Sicilia ed il “Continente”, Scilla e Cariddi, l’Isola e l’Europa.

Nei pensieri – e soprattutto nei progetti – di coloro che si apprestano a lanciare la Grande Operazione, il ponte sospeso è davvero l’ultima delle preoccupazioni

Prima ancora vengono le opere collaterali (in senso molto lato), che possono essere divise in quattro grandi categorie:

1. strutture logistiche pensate in appoggio al cantiere principale (centro direzionale, discariche, cave, cantieri secondari, strutture di raccordo,…);

2. strutture di collegamento tra le opere viarie esistenti ed il ponte (autostrade e ferrovie, e quindi anche stazioni, raccordi, svincoli, etc.);

3. strutture nate per ridurre l’impatto del Ponte sul territorio (opere compensative e mitigatrici);

4. varie ed eventuali (sponsorizzazioni, patrocini, …).

Compensare il disastro

L’impatto del mega – cantiere sarà terrificante ed andrà a devastare l’intero centro abitato di Villa San Giovanni – Cannitello, la zona nord di Messina (la punta della Sicilia, per capirsi) ma anche il centro città, lasciando “illesa” la periferia sud che già da ora è invasa da centri commerciali ed attività un tempo inesistenti, compreso l’imbarcadero che sposterà qui il traffico pesante.

Sarà questo il grande impatto dell’opera, e non solo quello sulla costa e sul mare, come comunemente si pensa. Del resto, già ora Villa San Giovanni e Messina soffrono le servitù di passaggio dei Tir che dal continente (inteso davvero come tutta Europa) vanno e vengono dall’Isola. Già ora gli abitanti respirano veleno, e non di rado vengono schiacciati nell’attraversare le strade.

Già ora l’abusivismo edilizio, la mania della seconda casa per tutti e comunque sempre “a due passi dal mare” e l’assenza di regole e controlli hanno distrutto le coste, rendendole turisticamente poco interessanti e paesaggisticamente scadenti. Già ora i due orrendi piloni dell’Enel, un tempo utili al passaggio della corrente elettrica ma oggi puramente decorativi (sono stati resi inutili dai cavi sottomarini), abbruttiscono lo scenario dello Stretto e sembrano annunciare il mostro di cemento che verrà.

Lo Stretto fa da apertura ad alcune tra le costiere più degradate e cementificate d’Italia, il tirreno messinese e lo jonio reggino, dove i paesi (anzi, le marine) sono lunghe teorie di cubi di cemento che spesso voltano le spalle al mare e stanno allineate lungo un nastro d’asfalto che è la via principale).

Il Ponte ed i suoi interventi compensativi andrebbero quindi ad incidere su una situazione abbondantemente compromessa.

L’idea della “compensazione” è già curiosa, perché implica l’ammissione dell’impatto negativo dell’opera sul territorio, che andrà corretto con una serie di iniziative proposte da una legge speciale che vuole derogare alla normativa ordinaria concedendo alla Stretto di Messina spa poteri degni di una situazione emergenziale.

Nella giungla delle iniziative secondarie, a basso contenuto tecnologico e con bassi livelli di specializzazione richiesta, si concentrano i maggiori appetiti e le attenzioni, non solo da parte di imprese e politicanti, ma anche della massa di disoccupati che vedono nei cantieri eterni l’unica alternativa all’emigrazione.

Alla vigilia delle elezioni amministrative, il “posto” più ambito non è quello di avvocato o di medico, ma di consigliere circoscrizionale, che per una manciata d’anni assicura la favolosa cifra di 500 euro mese, molto più che un lavoro di commessa o un progetto precario di assistenza sociale.

Le prossime elezioni nei quartieri sono un concorso anomalo, una gara per catturare voti raccogliendoli uno ad uno, porta a porta, “impegnando” gli amici e raggranellando consensi.

Un sistema che favorisce la crescita di una mentalità submafiosa, che apre la strada ad un sistema criminale basato sul ciclo del cemento, pronto a ricostruire un blocco sociale messo in crisi dalle trasformazioni economiche e delle inchieste giudiziarie. Una insana alleanza tra plebi alla fame e classe dirigente parassitaria e delinquenziale. Una mafia pronta a mediare ma anche a proporre le due vere armi di cui dispone: immense disponibilità economiche, derivate dagli extra-profitti del traffico internazionale di stupefacenti; e l’uso strumentale, efficace, mirato della violenza privata, per risolvere a proprio favore controversie od imporre il proprio punto di vista.

Questo ci attende, a questo dobbiamo rispondere, e non all’ipotetica possibilità di criminali feroci che subdolamente si infiltrano in un corpo sano, il puro mercato le cui regole dovremmo difendere.

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