L’iniziativa, annunciata nei giorni scorsi dalle autorità ruandesi, dovrebbe riguardare 36.000 prigionieri ma non è chiaro né il numero di quelli liberati in questa prima giornata – pare soprattutto gli ammalati e i più anziani, usciti dal carcere sorreggendosi a bastoni di legno – e né quanti verranno scarcerati in seguito.
Da informazioni raccolte sul posto, si apprende che il provvedimento riguarderebbe quattro categorie di detenuti: rei confessi della partecipazione ai massacri di undici anni fa, malati gravi (tra cui anche detenuti per reati comuni), anziani sopra i 70 anni e detenuti minorenni all’epoca dal genocidio; alcuni hanno già scontato interamente la condanna in carcere, altri la termineranno svolgendo lavori socialmente utili.
Fonti concordanti – confermate anche dal ministero della Giustizia – riferiscono che prima di queste ultime scarcerazioni in Rwanda i prigionieri erano circa 80-85.000, su una popolazione che nel ‘Paese delle Mille Colline’ si aggira intorno ai 7 milioni di abitanti.
Nel 2003 il governo del presidente Paul Kagame aveva aperto le porte del carcere a 22-24.000 detenuti sospettati del genocidio (che provocò tra mezzo milione e 800.000 vittime); l’anno scorso un’amnistia venne concessa a oltre 4.000 carcerati per reati comuni. Secondo fonti del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr) fino all’ultimo momento le autorità di Kigali non hanno reso noto la portata del provvedimento e ancora ieri sera gli istituti penitenziari non avevano le cifre esatte delle scarcerazioni. Nella provincia meridionale di Butare, verso il confine con il Burundi, sarebbero stati liberati 7.500 prigionieri, il cui futuro passa ora per i centri di rieducazione.
“Dopo la scarcerazione sono stati accompagnati in cinque scuole della zona, chiuse per la vacanze estive degli studenti, che si trasformeranno per un mese in ‘campi della solidarietà” spiega all`agenzia MISNA padre Celestine Lwirangira, cappellano del carcere di Nyanza; tra questi anche il Collegio ‘Cristo Re’ di Nyanza, dove stamani sono arrivati circa 1.200 ormai ex-detenuti in abiti civili, dopo aver abbandonando la tradizionale divisa di colore rosa.
Nel penitenziario – costruito per ospitare meno di un migliaio di detenuti – ne sono rimasti circa 3.800, mentre nella vicina struttura carceraria di Mpanga – inaugurata l’anno scorso e già sovraffollata come tutti i penitenziari ruandesi – vi sarebbero rinchiuse ancora più di 7.000 persone, mentre in quella di Butare ve ne sarebbero 13.000, di cui 1.500 per reati comuni.
“Per il reinserimento sociale dei detenuti è innanzitutto necessario spiegare loro i meccanismi dei tribunali popolari ‘Gacaca’ (che significa ‘erba’, perché le assemblee di villaggio si svolgevano all’aperto, ndr) dove molti di loro dovranno comparire” spiega ancora alla MISNA padre Lwirangira. Chi ha confessato le proprie responsabilità nel genocidio del 1994 – di solito con una dichiarazione scritta in carcere – è stato liberato, suscitando le dure critiche delle associazioni dei sopravvissuti, ma dovrà comparire davanti alla giustizia.
“Le loro reazioni sono comprensibili” osserva il cappellano del carcere di Nyanza. “Ma questa scarcerazioni sono uno strumento per la riconciliazione: non è pensabile punire tutte le persone coinvolte nel genocidio, che probabilmente sono decine o forse centinaia di migliaia” aggiunge padre Lwirangira.
Tra i detenuti rimessi in libertà c’è chi ha gia subito una condanna dalla magistratura ordinaria e l’ha scontata interamente; c’è persino chi è stato in carcere più a lungo del previsto, come i detenuti minorenni all’epoca dei massacri: per legge la loro pena non poteva superare 10 anni, invece molti ne hanno trascorsi 11 dietro le sbarre. Ora verranno raccolti tutti in un unico campo di reinserimento, dove resteranno per un periodo superiore a un mese.
In queste strutture gli ex-detenuti ricevono anche le istruzioni per svolgere i ‘lavori socialmente utili’, comminati in alternativa alla detenzione carceraria: “È un modo di risarcire la comunità e collaborare a migliorare il Paese” aggiunge Lwirangira. Infine, c’è chi in carcere potrebbe tornare: “Se il tribunale Gacaca non accetta la confessione resa dall’imputato o se emergono altre imputazioni a suo carico, la corte può rimandarlo in carcere” dice ancora il cappellano alla MISNA.
È già successo: anche se non ci sono cifre, il Comitato internazionale della Croce Rossa conferma che un numero elevato di detenuti scarcerati nel 2003 è stato successivamente imprigionato; la condanna massima per il reato di genocidio è la pena di morte. Davanti ai ‘Gacaca’ – allestiti a livello delle ‘cellule’, cioè le più piccole unità amministrative del Paese – si confronta un intero villaggio, dove le testimonianze di prigionieri, sopravvissuti ai massacri e familiari delle vittime dovrebbero diventare, nelle intenzioni delle autorità, occasione di confronto e riconciliazione.
Avviati due anni fa, le Corti popolari sono operative solo da pochi mesi, ma la maggior parte ancora in fase di sperimentazione: solo pochi Gacaca hanno già emesso condanne, mentre gli altri si stanno soprattutto limitando alla fase “istruttoria” dei processi, raccogliendo informazioni. “Il rischio – aggiunge padre Lwirangira – è che qualcuno si sia auto-accusato del genocidio pur di uscire dal carcere”, dove le condizioni di vita – secondo i pochi testimoni di organizzazioni umanitarie che vi sono entrati – sono estremamente dure, con pessime condizioni igienico-sanitarie e razioni di cibo scarse.
Le scarcerazioni di oggi riguardano gli imputati per episodi considerati ‘minori’ del genocidio, mentre i pianificatori e gli organizzatori delle stragi del 1994 sono detenuti nelle carceri del Tribunale internazionale per il Rwanda di Arusha, in Tanzania, dove su 63 detenuti 19 sono ancora in attesa di processo.
[EB] – RUANDA 29/7/2005