Malgrado gli alti indici di crescita economica registratisi nel paese a partire dal 1995 (circa 5% annuo) la transizione – si legge nel rapporto – ha comportato “seri costi sociali ed economici. Tali costi hanno incluso crescenti ineguaglianze sui redditi percepiti, migrazione massiccia dalle regioni più povere, collasso distruzione dell’economia e delle infrastrutture. Nonostante la crescita economica, ancora il 25-30% della popolazione d’Albania vive al di sotto della soglia di povertà e uno smisurato numero di poveri è costituito da donne. In aggiunta, un altro 30% è molto prossimo alla linea di povertà e può essere considerato come potenzialmente molto vulnerabile ad una caduta economica” (pag. 15).
E ancora: “È chiaro che gli effetti delle riforme volte alla liberizzazione, al decentramento e alla privatizzazione non sono sempre stati quelli attesi. La logica è piuttosto semplice: la crescita economica non sta raggiungendo una percentuale significativa della popolazione e attualmente sta generando profonde diseguaglianze sociali. In più, la situazione delle donne e la loro posizione sociale in Albania NON è cambiata in maniera marcata nell’ultimo decennio. C’è un gap crescente tra ricchi e poveri, nonché un gap di opportunità e benefici tra uomini e donne e tra settori urbani e rurali della società”(pag. 15).
L’UNDP guarda con preoccupazione alle scelte adottate dal governo albanese per stimolare la crescita economica.
“Il concetto di sviluppo umano sostenibile è stato ampiamente promosso da UNDP in Albania durante l’ultimo decennio ed è stato introdotto nei precedenti NDHRs ma ancora non è pienamente incorporato nella strategia politica e nell’agenda nazionale. Ad oggi, l’approccio albanese allo sviluppo può essere descritto come dominato dal paradigma della crescita economica, nell’ambito del quale gli obiettivi sociali e le ricadute della crescita assumono un’importanza secondaria”(pag.19).
IL COSIDETTO “MIRACOLO (MACRO-)ECONOMICO” ALBANESE
Si è parlato spesso di ‘miracolo economico albanese’ e un osservatore esterno che visiti solo Tirana (per esempio uno dei tanti osservatori internazionali che sono stati inviati qui un mese fa per vigilare sul corretto svolgimento elettorale) potrebbe anche cadere nell’inganno. Ma basterebbe rivolgersi alla stragrande maggioranza della popolazione albanese (che questo miracolo lo sta ancora aspettando!) per avere qualche dubbio, cui il rapporto UNDP offre seri fondamenti.
Subito dopo l’avvio della transizione, il PIL (Prodotto Interno Lordo) aveva fatto registrare in termini reali un crollo cumulativo del 39%. L’economia del paese era tornata a crescere nel 1993, facendo registrare un incremento medio del 9,3% fino al 1996. Il 1997, l’anno del disastro delle piramidali, fece registare un altro crollo (7%) mentre tra il 1998 e il 2001 la crescita tornò a raggiungere livelli medi del 7,4%. Nel 1999 per la prima volta il PIL ha superato il valore del 1990.
Indubbiamente, per diversi anni la precentuale di crescita è stata la più elevata d’Europa; ma, a guardare “dietro” le cifre (o “dentro” le cifre) la situazione appare completamente diversa.
Al di là delle ingenti quantità di denaro in circolazione, il percorso intrapreso dall’economia albanese non offre certo garanzie di tenuta e stabilità. Una parte consistente del “nuovo” deriva dalla piccola e media impresa (prevalentemente manifatturiera) e dal terziario (costruzioni, trasporti, commercio, turismo) nonché dalle rimesse degli emigranti, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella stabilizzazione macroeconomica del paese.1
Nel periodo 1991-2002 il denaro proveniente dall’estero ha costituito la principale fonte di valuta straniera che entrava nel paese ed ha rappresentato tra il 10 e il 22% del PIL. Nel 2002 le rimesse hanno raggiunto il totale di 630 milioni di USD, il doppio della valuta proveniente dall’esportazione di beni di consumo. Ancora oggi, le rimesse giocano un ruolo significativo nella riduzione della povertà e nel miglioramento delle condizioni di vita di molti nuclei familiari; rappresentano, infatti, il 13% del totale dei redditi delle famiglie albanesi (14% nelle famiglie non povere e 8% nelle famiglie povere).2
Il settore agricolo, che ancora garantisce la sopravvivenza a metà della popolazione albanese, non ha ricevuto le attenzioni e gli investimenti dovuti. Il primo grande errore commesso va rintracciato nella rapida privatizzazione realizzata immediatamente dopo il crollo del regime.
Tra il 1991 e il 1994 con la Legge per la distribuzione delle terre3, gli appezzamenti controllati dalle cooperative e dalle imprese statali vennero distribuite alle famiglie che vi lavoravano e vivevano. Il risultato fu che, a metà del 1995, 465mila famiglie controllavano 546mila ettari di terra: poco più di un ettaro a famiglia. La frammentazione della terra costituì un danno non facilmente sanabile, cui ha fatto seguito la rinuncia a qualunque altra strategia di rilancio della produzione e di sostegno alle famiglie contadine.
Secondo quanto si legge nel rapporto, non sono stati compiuti gli sforzi necessari per intervenire sulla stagnazione di intere regioni marginali e dunque per porre un freno alla spinta migratoria (sia interna che esterna) e alla iperconcetrazione di popolazione nelle aree urbane, prioritariamente nel corridoio Tirana-Durazzo.4
Il declino della produzione industriale, soprattutto dell’industria pesante, ha rappresentato uno degli aspetti più difficili da affrontare e non sono state individuate strategie per contrastarlo. La privatizzazione di molti degli impianti produttivi dei tempi del regime ha incontrato forti ostacoli, alcuni dei quali oggettivi e non superabili, come la loro irrimediabile obsolescenza.
Le riforme della infrastrutture statali – si legge nel documento – “sono state concepite solo come un problema di strade e trasporti, mentre i settori di energia, acqua e telecomunicazioni sono stati lasciati sotto gli schemi delle privatizzazioni”(pag.38).
Senza un investimento sui servizi (soprattutto i servizi in salute, educazione, distribuzione idrica e di forniture elettriche) che fosse realizzato in maniera allargata e su tutto il territorio nazionale, la loro qualità è notevolmente decaduta e con essa il benessere di una grossa fetta della popolazione.
ACCESSO AI SERVIZI, INDICATORI DI POVERTA` E INEQUITA`
“Ampie disparità esistono nella qualità delle infrastrutture fisiche e nell’erogazione dei servizi sociali – si legge nel rapporto – specialmente nelle aree rurali: entrambi gli aspetti importanti spaccati della povertà in Albania. I bassi standard nei servizi di istruzione e salute specialmente nelle aree rurali e semi-rurali del paese e la generale bassa qualità di detti servizi in Albania riducono in maniera significativa l’accesso della popolazione ai servizi di base”(Pag. 50).
Analizzando gli indicatori di accesso ai servizi per il 2003, emerge che i poveri:
– hanno accesso a servizi in salute adeguati due volte meno degli altri
– hanno accesso all’acqua potabile molto meno degli altri
– vivono in condizioni più difficili rispetto ai non poveri.
Se si guarda agli indicatori relativi ai bisogni non-soddisfatti, in molti casi i valori sono tre volte più alti nelle aree rurali piuttosto che nelle aree urbane.
Il valore nazionale del coefficiente Gini5 in Albania è 0,28 e non sembra variare molto tra le aree urbane e quelle rurali, il che significa che la polarizzazione economica attraversa e interessa tutto il paese.
Tuttavia, le aree più povere del paese sono quelle rurali, nelle quali risiede circa la metà degli albanesi. Il 29,6% della popolazione rurale vive al di sotto della linea di povertà in comparazione ad un 20,1% della popolazione urbana. La città che fa registrare la situazione migliore è Tirana, con una incidenza della povertà sul 17,8% degli abitanti.
I distretti che versano nelle condizioni più difficili sono quelli montagnosi del Nord Est, dove vive il 46% di tutti i poveri del paese. I distretti più poveri sono: Kukes, Has, Tropoje, Dibër, Malësi e Madhe, Bulqizë, Librazhd e Gramsh, ove il livello di povertà raggiunge il 46%. L’80% del numero totale di famiglie che beneficiano dell’assistenza sociale è concentrata proprio in questi distretti.
Le famiglie povere spendono il 66% dei propri ingressi per il cibo e molto meno per acquistare prodotti non alimentari (21,2%), mentre le famiglie che vivono a Tirana spendono rispettivamente il 48% per cibo e il 25% per altri prodotti.
Dal punto di vista sociale, la povertà colpisce maggiormente i nuclei familiari giovani e quelle famiglie che sono migrate verso le grandi città.
Una categoria particolarmente a rischio è quella delle persone nate con disabilità o che l’hanno acquisita prima di 21 anni. Il loro numero nel 2003 era approssimativamente di 46mila persone, la maggior parte delle quali vivono in campagna e hanno accesso solo a qualche servizio specifico o a nessun servizio. I bambini sono 12mila e lo stato offre un supporto solo al 9,5% di loro.
La categoria sociale più emarginata è costituita dalle minoranze etniche Rom e Jevq, che si stima rappresentino il 2% della popolazione. Oltre a soffrire un difficile accesso ai servizi, questi gruppi presentano un basso livello d’istruzione che poi si ripercuote sull’accesso ad altri diritti basici: al lavoro, alla salute o alla casa.
LA CONDIZIONE DELL`INFANZIA
Bambini e giovani costituiscono la fascia di età più vulnerabile. Circa il 50% dei poveri ha meno di 21 anni e nella maggior parte dei casi essi vivono in famiglie allargate: il 40% delle famiglie povere sono composte da 7 o più persone. Questi giovani vulnerabili sono maggiormente presenti nelle aree rurali che in quelle urbane o a Tirana.
I “poveri” e i “molto poveri” hanno uno scorso livello di istruzione e nel paese sta diventando preoccupante il fenomeno dell’abbandono scolastico. Nell’anno scolastico 2002-2003, il numero i bambini che hanno abbandonato la scuola sono circa il 2% dei minori in età scolare.
Alle conseguenze della povertà e della marginalità si aggiungono altri fenomeni specifici. Secondo i dati forniti dalle autorità scolastiche, 1450 bambini sono costretti ad abbandonare la scuola ogni anno per ragioni legate alla vendetta del sangue. Il fenomeno si registra soprattutto nelle regioni di: Scutari, Lezhe, Kukës e Dibra.
Inoltre, circa 5000 bambini sono stati trafficati nei vicini paesi di Italia e Grecia. Infine, il numero di bambini che lavorano e di bambini di strada ammonterebbe a circa 6700 in tutto il paese.
I bambini Rom e Jevq sono tra i più vulnerabili. Il tasso medio di frequenza scolastica per i Rom è di 4,2 anni e per i Jevq 5,05. Il 64% dei Rom e il 24% dei Jevq di età compresa tra i 7 e 20 anni sono analfabeti. La barriera più grande per l’istruzione è la povertà delle famiglie che non consente l’acquisto dei libri e dei materiali didattici.
LA SITUAZIONE DELLE DONNE
“Mentre il fattore povertà è stato per molti anni al centro delle politiche e delle strategie nazionali di sviluppo, lo sviluppo delle donne NON ha sorprendentemente ricevuto lo stesso livello di attenzione”, si legge nel documento (pag. 19). E ancora: “le donne costituiscono una delle principali componenti dei gruppi poveri del paese: inoltre, il loro status economico e sociale nella società non è cambiato molto negli ultimi 20, anni malgrado gli sforzi del governo e della società civile”(pag. 15).
Secondo gli esperti di UNDP, l’ineguaglianza di genere è evidente soprattutto se si considerano i seguenti aspetti della vita socio-economica e politica del paese:
– presenza nella leadership sociale e nei processi di decision-making
– partecipazione al mercato del lavoro e livello dei salari
– diffusione della violenza domestica
– impatto del fenemono del trafficking
– copertura di servizi basici: prima fra tutti istruzione e salute
Sul versante economico, le opportunità lavorative e di carriera sono ancora limitate per le donne, le quali – secondo le statistiche dell’INSTAT – percepiscono remunerazioni che sono per il 27% più basse di quelle degli uomini. Tra uomini e donne c’è un’enorme differenza riguardo all’accesso alla proprietà, all’iniziativa privata e al credito.
Donne divorziate, donne capofamiglia, donne maltrattate o abusate sessualmente e vittime della tratta sono considerate le più vulnerabili e costituiscono circa il 5,2% delle popolazione femminile albanese.
Il maltrattamento domestico è ancora in Albania un fenomeno scarsamente documentato e denunciato. La ricerca più approfondita sul fenomeno è stata realizzata nel 1996 dalla ong “Refleksione” (lo stesso rapporto UNDP – dopo quasi dieci anni – la cita come principale fonte di riferimento) e non esistono valutazioni più aggiornate. I risultati di quella ricerca erano decisamente allarmanti, in quanto emergeva che il 40% delle donne intervistate avevano vissuto regolarmente esperienze di violenza psicologia e la percentuale di donne e ragazze maltrattate risultava doppia nelle aree rurali rispetto a quelle urbane. Inoltre, il 19,2% delle donne maltrattate riferiva che i loro mariti avevano cercato di ucciderle.
Nonostante la gravità della situazione, non è ancora previsto nella legislazione penale il reato di violenza domestica. Inoltre, su tutto il territorio nazionale sono presenti solo due case-rifugio cui le donne posso rivolgersi e pochi altri centri di ascolto e couselling. Nelle aree rurali, l’abbandono cui le donne maltrattate sono consegnate è totale.
Infine: il trafficking. Fenomeno che ha segnato in maniera drammatica la vita di tante donne e ragazze albanesi da quando, già a partire dal 1993, il paese è divenuto bacino di provenienza per la tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Su questo fenomeno è difficile azzardare delle cifre: forse per questa ragione il rapporto UNDP non riporta dati numerici. Di fatto non esistono stime sulle quali si registri accordo tra le valutazioni dei paesi di destinazione o degli organismi internazionali che si sono occupati del fenomeno e quelle governo albanese.
Negli ultimi anni il fenomeno si è notevelmente ridimensionato ma non accenna a scomparire e difficilmente ciò potrà accadere, fino a quando la vita delle donne in Albania sarà segnata da tante barriere socio-economiche e culturali e fino a quando gravi problematiche come quella della violenza domestica non otterrenno nemmeno il diritto ad essere nominate.
MA LA CHIAMANO STABILITA`
Le considerazioni contenute nel rapporto impongono una seria riflessione sul processo in atto nel paese balcanico e anche sul ruolo che la comunità internazionale ha avuto finora e su quello che potrebbe avere nel contenimento delle dannose e perverse dinamiche di crescita finora incoraggiate o semplicemente alimentate o assecondate. Inoltre, forniscono risposte chiare ai tanti interrogativi che non possono non suscitare tante dichiarazioni entusiastiche formulate da altri organismi internazionali che indubbbiamente stanno indirizzando i terribili processi in atto: in nome di quello che oggi è il verbo in Europa, per non dire nel mondo: “stabilità” o “sicurezza”. Ma sicurezza per chi?
Alla fine di febbraio di quest’anno, il Consiglio Esecutivo del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha preso la decisione, su richiesta del Governo di Tirana, di prolungare per altri 5 mesi il programma di “Riduzione della Povertà e Aumento del Benessere” che si sarebbe dovuto concludere il 20 di giugno 2005. La decisione pare sia stata presa in considerazione dei positivi risultati raggiunti dal paese.
In un articolo dedicato all’argomento si legge: “Il Rappresentante albanese alla Banca Mondiale, Nadir Mohammed, ha presentato all’inizio di marzo un report nel quale la Banca Mondiale analizzava come si potesse garantire uno stabile incremento dell’economia anche dopo la fine del periodo di transizione in cui il paese vive dal 1997. L’analisi effettuata evidenzia come il ritmo con cui l’economia si è ripresa ha sorpreso anche i più ottimisti estimatori dell’attuale governo di Tirana. I membri del comitato di direzione della Banca Mondiale hanno arguito che per l’Albania il cammino verso una stabile e duratura tranquillità economica è ancora lungo, sono ancora molte le riforme da eseguire”. E continua: “Nel documento redatto dalla Banca Mondiale viene evidenziato come presto il Governo si dovrà confrontare con nuove sfide dal punto di vista degli apparati pubblici quali: la diminuzione dell’assistenza sanitaria che causa costi troppo elevati e l’abbassamento dei redditi provocato dal continuo flusso d’immigrazione che in questo momento occupa il 14% del P.I.L. nazionale”.6
Note
1 Dal crollo del comunismo, un quinto degli albanesi – cioè circa 600.000 persone – sono emigrate verso l’estero.
2 La percentuale è più alta fra i nuclei urbani (16%) che tra quelli rurali (11%). Vedi pag.39.
3 Legge N.7501, 19 agosto 1991 e Decisione 452 del 17 Ottobre 1992.
4 Di tutti i migranti interni, 400mila si sono diretti verso Tirana, Durazzo ed altre città principali. Solo le prefetture di Tirana e Durazzo hanno ricevuto il 53% del numero totale dei migranti provenienti dalle aree rurali (pag.77).
5 Il coefficiente Gini è il sistema più comunemente utilizzato per misurare la disequità socio-economica all’interno di una comunità. Esso varia da zero – inequità assoluta – a 1 – completa equità.
6 Emanuele Tarducci , “Albania: nuovi progressi economici”, in Equilibri.net, http://www.equilibri.net/europa/albania505.htm
Per consultare il rapporto, vedasi: “Pro-Poor & Pro-women policies & Development in Albania, Approaches to Operationalising the MDGs in Albania”, 2005 National Human Development Report Albania, (Seda- Sustainable Economic Development Agency- Tirana; UNDP- United Nations Deveploment Programme Albania), in http://www.undp.org.al/?elib,698.