Rwanda: un esempio emblematico di espropriazione della propria identità storica
Il 6 aprile del 1994 un missile aria terra lanciato dall’aeroporto di Kigali colpisce l’aereo su cui viaggia il capo di stato del Rwanda l’Hutu Habyarimane e il presidente del Burundi.
È il segnale del genocidio annunciato a cui si preparavano gli Hutu estremisti: gli Interamwe.
È un bagno di sangue: in tre mesi più di 800.000 morti Tusti e Hutu moderati, massacrati con ogni mezzo, dal macete alle armi da fuoco.
L’Onu, di cui Kofi Annan era responsabile nella zona del Centro Africa, ritira i suoi uomini da Kigali e lo sparuto contigente rimasto ha l’ordine di non intervenire nel conflitto.
Sui mass media di tutto il mondo scorrono le terrificanti immagini del genocidio.
All’assemblea dell’Onu non si vuole pronunciare la fatidica parola genocidio per non essere costretti, secondo il diritto internazionale, ad intervenire per porre fine all’orribile massacro.
L’Europa decide di non intervenire nonostante sia stata anticipatamente informata sui terribili eventi che si stavano preparando.
Anzi la Francia aveva offerto un consistente aiuto economico e politico al presidente del Rwanda perché potesse procurarsi in tempo le armi e i machete e sostenere il conflitto annunciato vittoriosamente.
Per la Francia si trattava di difendere il controllo della regione dei Grandi Laghi dal tentativo anglo-americano di sottrargli il dominio economico, politico e strategico del centro africa.
Gi unici interventi che saranno messi in atto dall’ONU e dalle potenze occidentali saranno le operazioni di salvataggio degli occidentali presenti a vario titolo in Rwanda.
La Francia, contro il parere dell’ONU e dell’UE, interverrà verso la fine del conflitto con l’operazione “Tourquoise” per mettere in salvo, a Kibeho, qualche migliaio di hutu. Gli stessi saranno successivamente massacrati dai tutsi nel momento in cui i francesi si ritireranno dal Rwanda.
Farsi una ragione del genocidio lo ritengo impossibile, non ci sono motivi di ordine politico o etnico o sociale che possono farci comprendere le ragioni di questa assurda follia collettiva.
Né appellandosi a Freud, né alla sociologia ci servirà a comprendere questa atrocità, di un abbrutimento tanto ripugnante quanto inumano, che supera ogni ragionevole spiegazione.
Tralasciando la questione del genocidio che meriterebbe un più ampio approfondimento, cerchiamo di comprendere le ragioni storiche della presunta guerra etnica tra tutsi e hutu.
Diciamo subito che non c’è alcuna ragione storica e antropologica che possa giustificare l’esistenza di due etnie.
Sia i tutsi che gli hutu hanno la stessa lingua, la stessa religione, la stessa storia e tradizione.
Storicamente indicavano, prima della colonizzazione, due classi sociali diverse, l’una rappresentava la classe sociale altolocata preposta al comando, l’altra era considerata la classe sociale più povera socialmente ed economicamente.
Per fare una analogia con le nostre categorie storico-sociali potremmo dire che i tutsi rappresentavano la classe sociale nobiliare e gli hutu la classe sociale dei servi della gleba e degli artigiani.
L’analogia è d’altra parte plausibile dovendo parlare di una struttura monarchica quale era quella del regno del Rwanda prima della colonizzazione.
Ci si chiede allora come mai si sia generato questo falso storico.
Esso non è l’unico. Presunte differenze etniche e tribali si sono create in Kenia tra i masai e i kikuyu, in Sud africa tra gli zulu e gli xohosa, in Nigeria tra gli yoruba, gli hausa e gli igbo.
Quattro sono forse le ragioni più importanti che hanno determinato la creazione di distinzioni etniche inesistenti e poi di conflitti tribali ed etnici:
1) Dopo il congresso di Berlino del 1884 in cui si decise la spartizione, sottoscritta nel 1885, da parte degli stati europei dell’Africa in assenza degli africani, era convinzioni diffusa da parte dei colonizzatori, in virtù di un darwinismo sociale, che le popolazioni africane comprese tra il Sahara e il Limpopo, considerate all’ultimo posto della scala evolutiva, non avessero una storia.
2) Tra il 1905 e il 1914 furono scritti in Europa una ottantina di libri sulla etnografia africana. Tutto ciò in un contesto culturale in cui prevale la logica del razzismo e dello sciovinismo.
3) L’esigenza prevalente dei colonizzatori era quella di dare stabilità politica e militare alle loro colonie per trarne il maggiore vantaggio economico.
4) Per poter più facilmente assoggettare queste popolazioni occorreva indebolire la struttura sociale e politica tradizionale attraverso l’usuale adagio “divide et impera”.
La colonizzazione tedesca, prima della prima guerra mondiale si trovò in Rwanda di fronte ad una struttura sociale politica abbastanza solida e ben organizzata.
Fu tale la meraviglia rispetto ai forti pregiudizi culturali e storici che condizionavano la cultura occidentale che essi pensarono che il gruppo sociale al governo non poteva in alcun modo essere originario del luogo ma che esso proveniva dagli altopiani dell’Etiopia che erano di origine camita e che avessero civilizzato gli indigeni con la loro superiore civiltà.
Pregiudizio questo che non aveva alcun fondamento storico e culturale come abbiamo già detto sopra.
Successivamente alla prima guerra mondiale la “Società delle nazioni” affidò il Rwanda-Urundi ai Belgi, i quali, essendo già impegnati in Congo, paese di enorme ricchezza e 80 volte più grande del Belgio, affidarono alla loro chiesa cattolica la “civilizzazione” e la evangelizzazione del Rwanda.
Il Rwanda professava una religione monoteista e nonostante qualche resistenza di carattere politico alla fine accettò di convertirsi al cristianesimo.
Il sovrano abbracciò, più per convenienza politica che per convinzione religiosa, la fede cristiana e con esso tutta la popolazione.
Il Rwanda che non aveva subito l’influenza dell’islamismo diventò in poco tempo il paese africano più cattolico dell’Africa.
I Belgi per governare il Rwanda si appoggiarono ai Tutsi che godettero di grandi privilegi.
I Tutsi avevano accesso alla scolarizzazione e ai compiti di governo del paese.
Ma chi erano i tutsi?
Era possibile distinguerli fisicamente?
Essi erano identificati come persone alte e longilinee dal naso dritto e fine e non schiacciato.
Ma questa definizione somatica non corrispondeva però alla realtà dei fatti, vi erano tutsi altolocati con posizione di responsabilità nell’amministrazione del paese che non rispondevano ai canoni somatici della presunta etnia; vi era poi una fascia intermedia della popolazione che poteva inquadrarsi benissimo sia tra i connotati tutsi che hutu.
I belgi allora pensarono bene di selezionare le presunte etnie in base al reddito.
Coloro che possedevano più di 10 vacche erano considerati tutsi e nella loro carta di identità erano riconoscibile come tali, gli altri erano indubbiamente hutu.
La identificazione sulla carta di identità avrebbe sciolto ogni dubbio.
Pertanto anche se un uomo era di statura bassa col naso schiacciato, se per linea paterna era tutsi, esso apparteneva inequivocabilmente all’etnia privilegiata.
Con buona pace per i belgi essi avevano trasferito sia pure in termini etnici la distinzione che nel loro paese era avvenuta tra i valloni e i fiamminghi.
All’ultimo livello della scala sociale vi erano i pigmei, poco importa se appartenessero effettivamente alla popolazione originaria prima delle grandi emigrazioni in Africa; essi erano gli esclusi dalla società e svolgevano il ruolo di buffoni di corte o i più umili lavori.
I twa (i pigmei) erano così il ceppo della popolazione originaria del Rwanda, gli hutu di lingua bantu si erano insediati con le grandi immigrazioni delle popolazioni africane e i tutsi di stirpe camita, avevano conquistato il Rwanda in tempi più recenti venendo dagli altipiani dell’Etiopia.
Senza alcuna conoscenza di carattere antropologico e storico i colonizzatori europei, i tedeschi prima e poi i belgi, avevano scritto a loro piacimento la storia del popolo rwandese.
Si può immaginare come questa fantastoria inventata dai belgi sia diventato patrimonio comune della popolazione attraverso l’insegnamento che veniva impartito nelle scuole dagli stessi belgi.
Esso penetrò nell’immaginario collettivo senza alcuna revisione critica e scientifica dei fatti.
Se i ripetuti massacri di hutu e tutsi avvenuti in modo ricorrente dopo la decolonizzazione e il recente genocidio non può spiegare la ferocia di questi inumani fatti è certo che questa assurda falsificazione della storia di un popolo ha contribuito non poco a generare odio, violenza e atrocità.
A nulla valse il trattato di Arusha del 1993 dell’OUA alla presenza dell’ONU per scongiurare un ennesimo conflitto interno.
La forza dell’odio e della violenza, infiammati dalle armi delle potenze occidentali che venivano generosamente fornite ai gruppi di potere in conflitto, fece precipitare l’esile equilibro di una pace sempre in bilico.
Dietro le quinte si muovevano da una parte gli inglesi e gli americani che appoggiavano i tutsi incitandoli a riprender il potere che avevano perso, dall’altra parte c’era la Francia e il Belgio che volevano conservare la loro influenza politica ed economica nella zona dei “Grandi Laghi”.
La posta in gioco era l’occupazione del Congo paese da sempre ambito per le enormi ricchezze del sottosuolo.
Il Rwanda sarebbe servito come trampolino di lancio per questa nuova avventura.
Questa breve e parziale esposizione di una vicenda emblematica del continente insanguinato ci può forse dare un po’ l’idea del modo in cui i paesi africani sono stati espropriati non solo delle loro ricchezze ma anche della loro storia.
Dal 1994 al 1996 2 milioni circa di profughi hutu furono accampati in condizioni igieniche proibitive nei paesi confinanti il Rwanda.
Più di un milione di profughi furono accampati sotto la “protezione dell’alto commissario ai rifugiati dell’ONU tra il nord Kivu e il sud Kivu, tra Goma e Bukavu (in Congo).
I tutsi che avevano debellato il genocidio con il FPR (il fronte patriottico ruandese) appoggiato dagli inglesi e dagli americani, premevano perché si smantellassero i campi profughi in cui sembrava si stesse preparando, da parte degli interhamwe, una ripresa dei conflitti a danno dei tutsi per riprendere il potere perduto.
Nel 1996, dopo due anni dal genocidio, i campi profughi del Congo al confine con il Rwanda vengono bombardati.
Centinaia di migliaia di profughi scampati alle armi ritornerà, a piedi, in Rwanda. Gli altri, circa mezzo milione, fuggirà nella foresta del Congo e molti di loro, circa trecento mila troveranno la morte.
L’esodo biblico sarà testimoniato dalle riprese di RAI 3 con Carmen La Sorella, la quale denuncerà l’immobilismo programmato dell’Alto commissariato ai profughi che resterà seduto nei bar ad assistere all’immane tragedia.
Ancora una volta né l’Onu, né le potenze occidentali muoveranno un dito per soccorrere uomini, donne e bambini mentre muoiono come mosche.
Il Congo: un paese inventato dalle potenze occidentale al congresso di Berlino del 1884-85
Ma facciamo un passo indietro, cosa è il Congo?
Un paese tra i più dotati nel mondo di ricchezze del sottosuolo, uno dei più importanti esportatori di diamanti, un paese che fece la ricchezza di Leopoldo II che lo aveva conquistato con le armi e depredato di avorio e di caucciù, attraverso la sua società “umanitaria” che avrebbe dovuto liberare gli schiavi.
Nel periodo della conquista di Leopoldo II la popolazione del Congo fu dimezzata.
In seguito alle lotte intraprese da Leopoldo morirono circa 20 milioni tra uomini, donne e bambini.
Il Congo conquistato dalle truppe mercenarie di Leopoldo II, e poi confermato dal congresso di Berlino del 1884, è grande 8 volte l’Italia.
Lo Stato attuale del Congo, come buona parte degli Stati africani, sono il risultato della spartizione del bottino di guerra delle potenze occidentali.
La spartizione dell’Africa da parte dei paesi colonizzatori ha seguito la logica degli equilibri di potere all’interno del mondo occidentale, cancellando con un colpo di spugna la storia africana pre-coloniale.
In assenza degli africani, i loro regni, con il patrimonio di storia, di tradizione, di cultura sono stati di colpo spazzati via.
I popoli africani, a loro insaputa, si sono trovati, loro malgrado, all’interno di uno schema di Stato, funzionale alla politica e all’economia delle potenze colonizzatrici.
Il congresso di Berlino del 1884, voluto da Bismarck, si fece interprete di un sentire comune imperialistico e razzista.
A partire da ciò le successive azioni politiche sul territorio africano servirono a renderlo maggiormente sfruttabile dal punto di vista economico.
Pertanto occorreva dotare le singole colonie di un sistema politico, amministrativo e militare idoneo a tale scopo.
Il Regno del Congo, prima proprietà privata di Leopoldo II, poi protettorato Belga fu deprivato:
1) del suo territorio e dei suoi storici confini territoriali. I confini dell’attuale Congo non corrispondono ai confini del vecchio regno del Congo.
2) Il sovrano del Congo di religione monoteista fu tra i primi re africani a convertirsi al cristianesimo. Tale conversione, fatta più per motivi politici che per convinzione, diede l’accesso ai missionari cattolici e protestanti che spazzarono con un sol colpo tutta la tradizione e le usanze religiose su cui si reggeva, in buona parte la loro millenaria cultura.
3) I principi fondamentali delle culture presenti nel nuovo territorio del Congo e cioè: la proprietà collettiva e l’identità tribale furono negate in nome di una più “efficiente” cultura della proprietà privata e della soggettività individuale.
4) La tradizione orale su cui si erano costruiti i rapporti tra le varie tribù del Congo venivano stravolte da una legge scritta e da un sistema politico, burocratico ed economico di tipo occidentale.
Ma sotto questa vernice occidentale permaneva un cuore e un pensiero africano che nulla aveva in comune con la cultura che gli era stata imposta.
Se alla luce di ciò leggiamo gli avvenimenti storici, i conflitti interni, le guerre “tribali”, l’involuzione del paese nel corso della storia coloniale e post-coloniale comprendiamo come le radice dell’originaria cultura finiscono per emergere drammaticamente alla ricerca di una identità perduta.
In questa ottica occorre rintracciare la radice della cultura africana e le loro origini attraverso un serio studio antropologico e storico della realtà pre-coloniale.
Nino Rocca
Per una breve bibliografia:
Hosea Jaffe, “Africa, movimenti e lotte di liberazione”, Ed. Arnoldo Mondadori, Verona, 1978
Philip Gourevitch, “Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie”, Einaudi, Torino, 2000
Colette Braeckman, “Le Dinosaure: le Zaïre de Mobutu (1992), Rwanda: Histoire d`un génocide (1994) et Terreur africaine : Burundi, Rwanda, Zaïre, les racines de la violence (1996)“. Ed. Fayard
Alberto Sciortino, “Prima della globalizzazione, la genesi del mercato mondiale e le origini del sottosviluppo 1400-1914”, Ed. Associate, Roma, 2003.
Hochschild Adam, “Gli spettri del Congo”, Ed. Rizzoli, 2001.