Luoghi comuni 5 - La ricerca di soluzioni per il grave sfruttamento lavorativo in agricoltura è centrata sui caporali. Come se fossero l'unica causa. In realtà sono un anello della catena produttiva. E neppure il più importante. In questo modo, si oscurano le responsabilità delle aziende e si trovano soluzioni consolatorie. Ma inefficaci
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Le morti dell’estate 2015 hanno dimostrato che il problema del grave sfruttamento in agricoltura riguarda anche gli italiani. Ma il dibattito pubblico, durante e dopo, è rimasto esclusivamente centrato sui caporali. Così come la ricerca delle soluzioni.
In questo modo, l’attenzione è rimasta sui “cattivi” sostanzialmente estranei al sistema produttivo e in gran parte stranieri. Così si dimentica che i caporali sono soltanto uno degli anelli della catena. E neppure il più importante, visto che anche dove non esiste il caporalato (si pensi alla zona di Vittoria-Ragusa) ci sono fenomeni di sfruttamento estremo ed esteso.
Il caporalato serve alle aziende e comprime i costi, ma se domani sparisse sarebbe comunque sostituito da forme semi-legali di agenzie interinali e cooperative senza terra, come già avviene in molte zone dal nord a sud dell’Italia.
Questa prospettiva distorta ha portato a soluzioni inadeguate: le tendopoli, i vertici in Prefettura, la ricerca di soluzioni tampone, i marchi di qualità per chi non sfrutta (come se fosse un comportamento da premiare e non un requisito di base) e le retate contro i caporali. Tutte azioni in sé meritevoli ma che non hanno portato a una soluzione del problema.
L’imprenditore – specie in situazioni di crisi economica – è ancora considerato al di sopra della legge, perché porterebbe benessere al territorio. Tra l’altro, questo benessere è spesso fittizio o temporaneo. In ogni caso, il nodo del problema è il potere assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo, delle aziende. E un modo di produzione che comprime i costi a scapito dei diritti di chi lavora.
Otto eroi, italiani e no, uomini e donne. Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti. Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.
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“Il problema sono solo i caporali”
Le morti dell’estate 2015 hanno dimostrato che il problema del grave sfruttamento in agricoltura riguarda anche gli italiani. Ma il dibattito pubblico, durante e dopo, è rimasto esclusivamente centrato sui caporali. Così come la ricerca delle soluzioni.
In questo modo, l’attenzione è rimasta sui “cattivi” sostanzialmente estranei al sistema produttivo e in gran parte stranieri. Così si dimentica che i caporali sono soltanto uno degli anelli della catena. E neppure il più importante, visto che anche dove non esiste il caporalato (si pensi alla zona di Vittoria-Ragusa) ci sono fenomeni di sfruttamento estremo ed esteso.
Il caporalato serve alle aziende e comprime i costi, ma se domani sparisse sarebbe comunque sostituito da forme semi-legali di agenzie interinali e cooperative senza terra, come già avviene in molte zone dal nord a sud dell’Italia.
Questa prospettiva distorta ha portato a soluzioni inadeguate: le tendopoli, i vertici in Prefettura, la ricerca di soluzioni tampone, i marchi di qualità per chi non sfrutta (come se fosse un comportamento da premiare e non un requisito di base) e le retate contro i caporali. Tutte azioni in sé meritevoli ma che non hanno portato a una soluzione del problema.
L’imprenditore – specie in situazioni di crisi economica – è ancora considerato al di sopra della legge, perché porterebbe benessere al territorio. Tra l’altro, questo benessere è spesso fittizio o temporaneo. In ogni caso, il nodo del problema è il potere assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo, delle aziende. E un modo di produzione che comprime i costi a scapito dei diritti di chi lavora.
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Il libro
La Spoon River dei braccianti
Otto eroi, italiani e no, uomini e donne.
Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti.
Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.