Quattrocento scioperanti, più di settanta punti vendita coinvolti e la mancata apertura di un ristorante per mancanza di personale. È il bilancio, decisamente positivo per gli organizzatori, dello sciopero dei lavoratori dei fast food, svoltosi “a sorpresa” a New York nella giornata di giovedì 4 aprile. Fra le più sfruttate e meno sindacalizzate d`America, questa categoria aveva già tentato una prima astensione dal lavoro lo scorso novembre. Stavolta la partecipazione è raddoppiata, segno che sempre più lavoratori guardano con favore alle due principali richieste avanzate dagli scioperanti: un aumento della retribuzione oraria che consenta di raggiungere la cifra di 15 dollari l`ora, e la possibilità di organizzarsi nel sindacato senza incorrere in misure punitive (fino al licenziamento) da parte della direzione aziendale. La giornata di protesta, conclusasi con una manifestazione dei lavoratori e di gruppi di cittadini sensibili alla loro causa partita dal Marcus Garvey Park di Harlem, ha coinvolto tutti i principali giganti della ristorazione veloce: da McDonald`s a Burger King, da Wendy`s a Pizza Hut e Taco Bell, per finire con Domino`s e Papa John`s.
Nel coprire l`evento per la testata Salon, Josh Eidelson, giovane e talentuoso giornalista statunitense che si occupa di lavoro e temi sindacali, ha riportato le voci di alcuni degli scioperanti. Ad esempio quella di Joe Barrera, ventiduenne che lavora per KFC e che, circa le ragioni dell`aumento delle adesioni rispetto all`iniziativa di qualche mese fa, ha confidato ad Eidelson: «Immagino che sia a causa del fatto che molti si sono stancati di non essere rispettati e di essere sottopagati, sfruttati, privi di un orario stabilito una volta per tutte sul quale fare affidamento e del numero di ore di lavoro necessarie a poter tirare avanti. Fondamentalmente, penso si siano stancati di essere vittime di giochetti». Barrera viene pagato 7,25 dollari l`ora (poco più di 5 euro e mezzo), l`equivalente del salario minimo statunitense. Un aumento pari a quello richiesto dagli scioperanti gli consentirebbe di evitare di saltare i pasti (sic) e di iscriversi all`università. «Magari potrei anche avere una ragazza e portarla fuori per un appuntamento. Al momento, tutto ciò che guadagno se ne va per la semplice sopravvivenza».
Quella dei fast food è, soprattutto negli Stati Uniti, una vera e propria industria che fa muovere annualmente miliardi di dollari. Ma è anche, dal punto di vista delle condizioni della forza lavoro, quanto di peggio il paese possa offrire: salari da fame, turni massacranti e imprevedibili, ritmi forsennati, violenze verbali da parte di capi e capetti e un`enorme difficoltà ad organizzarsi per vie sindacali. È quindi contro tale situazione che ieri i lavoratori hanno raccolto l`appello della campagna di pressione Fast Food Forward e hanno smesso di spiattellare hamburger e friggere patatine. Non solo: il tipo di precarizzazione della forza lavoro in voga nei fast food e sempre più il paradigma dei “nuovi” posti di lavoro che vengono creati nella prima economia del mondo. Il modello McDonald`s e la figura del permatemp (qualcosa di molto simile al nostro precario) negli ultimi anni hanno smesso di essere confinati al mondo della ristorazione veloce, diffondendosi in altri comparti produttivi e altre categorie.
Tanto più importante è dunque il tentativo di Fast Food Forward di organizzare questi lavoratori con uno strumento antico ma pur sempre imprescindibile: lo sciopero. Tentativo oltretutto rischioso, se si considera che la legge Usa impone restrizioni notevoli a tale diritto. Quanto alla possibilità di eleggere propri rappresentanti sindacali e di organizzarsi con una delle sigle esistenti, le leggi federali riconoscono tale facoltà, ma secondo modalità che, col passare degli anni, hanno trasformato un diritto fondamentale in un riconoscimento solo formale. Di fatto, il processo di sindacalizzazione è impedito dal potere di intimidazione e di ritorsione del datore di lavoro. Se quest`ultimo licenzia un lavoratore che ha alzato la testa, rischia in realtà molto poco, per lo più multe di lieve entità. In settori e posti di lavoro dove non c`è una tradizionale presenza del sindacato, farlo entrare ed imporre una forma di contrattazione collettiva è, in ultima analisi, molto arduo.
La sfida che si impone quindi ai lavoratori dei fast food, come anche a quelli di grandi catene della vendita al dettaglio come Walmart (impegnati in una campagna simile e astenutisi dal lavoro l`ultima volta a novembre), è superare quella “soglia di guardia” della partecipazione numerica che metta al riparo gli scioperanti da atti di rappresaglia padronale. La strada imboccata con lo sciopero di ieri pare essere proprio questa, anche se è presto per affermare che negli Stati Uniti si stia andando verso una nuova fase di conflitto sociale e di sindacalizzazione in settori come quello della ristorazione e dei servizi che per decenni sono stati una terra di nessuno dal punto di vista dei diritti della forza lavoro. Certo è che la data scelta per lo sciopero di ieri, il 4 aprile, riporta simbolicamente ad uno dei momenti più intensi delle lotte sociali che hanno attraversato gli Stati Uniti nel corso del Novecento. In quello stesso giorno, nel 1968, Martin Luther King veniva ucciso da un colpo di fucile a Memphis, dove si era recato per sostenere gli spazzini neri in sciopero. Fra questi ultimi, quarantacinque anni fa, c`era anche Alvin Turner, oggi settantottenne, che nei giorni scorsi ha incontrato a New York una delegazione di lavoratori dei fast food. A proposito di numeri e di volontà di lottare, il suo messaggio a quanti erano venuti ad ascoltarlo è stato chiaro, al limite della brutalità: “Dovete farvi sentire. Se non lo fate, non potete far altro che darvi per vinti”.