Nella terra senza speranza dei Casalesi, così come nel regno “infernale” dei Pesce – Bellocco, sembra che gli italiani non abbiano più voglia o forza di ribellarsi. Nei decenni passati, campani e calabresi hanno probabilmente perso un duro scontro sociale, hanno patito e soffrono ancora delle azioni militari di clan che vogliono imporre il loro dominio attraverso la paura e l’azione terroristica, forse pagano più di quanto si possa pensare la crisi o la fine di strutture che si basavano su precise ideologie.
Sta di fatto che non ci si ribella più. In queste contrade dove la legge si scrive a colpi di kalashnikov, i fatti di cronaca più “efferati” sono ormai accolti con la stessa emozione con cui si ascoltano le previsioni del tempo.
Ci voleva, a Castel Volturno come a Rosarno, un pugno di africani per segnare la differenza tra il consueto e l’inaccettabile.
Per una crudele beffa del destino, le uniche rivolte contro le mafie più feroci d’Italia le hanno fatte delle “non-persone” senza diritti, documenti, identità; uomini consapevoli che alla fine della protesta avrebbero rischiato l’espulsione.
Dal 12 al 17 dicembre, pochi chilometri quadrati di territorio italiano sono sconvolti dalla violenza: il ferimento dei due ivoriani avvenuto nei pressi della cartiera di San Ferdinando, la strage di Briatico, l’omicidio di un bracciante a Rosarno.
I mass media, la politica e la stessa società civile reagiscono in maniera molto diversa. Suscita più emozione il ferimento non letale di quelli che sono definiti “fantasmi” o schiavi, ovvero due degli immigrati impegnati nella raccolta delle arance, che la morte tragica e violenta di tre cittadini dell’Unione Europea.
Il discrimine tra i due episodi è la rivolta dei neri da un lato, l’assuefatta indifferenza dei calabresi dall’altro.
Bombe, agguati, attentati, auto imbottite d’esplosivo, teste di animali mozzati, feriti in agonia nelle corsie d’ospedale sono gli episodi “colombiani” che trasformano da anni la cronaca regionale in un bollettino degno di una zona di guerra. “Si ammazzano tra loro”, “queste cose succedono anche altrove”, “i media evidenziano solo gli episodi negativi” sono le difese esili, i paraventi di carta velina, le scusanti demenziali a cui ormai non crede nessuno.
Poche ore dopo il ferimento del 12 dicembre, invece, oltre 400 stranieri di Rosarno si radunano in strada per una piccola rivolta che dura fino all’alba, di fronte la polizia in tenuta anti-sommossa.
Non sappiamo se col loro gesto gli africani salveranno Rosarno, o l’Italia imbrigliata dalla corruzione, impaurita dalla crisi, antropologicamente regredita. Certamente hanno già dato una fondamentale lezione.
Una strage di… italiani
Possono “consolarsi” gli africani. Il ferimento di due ivoriani ha fatto più notizia di tre calabresi morti ammazzati nel giro di 40 ore.
La sera del 17 dicembre, un bracciante agricolo di 63 anni è ucciso a Rosarno a colpi di pistola. Il cadavere è stato trovato dal figlio, in mezzo alle piante di kiwi del loro terreno, in contrada Olmelli. Uno dei tanti fotogrammi di quel film dell’orrore che è la cronaca nera dei paesi calabresi .
Appena il giorno prima, una strage tra gli uliveti era avvenuta a Briatico, paese sul mare cristallino della costa degli Dei, non distante dalla Piana, il cui consiglio comunale a suo tempo era stato sciolto per mafia.
Due morti il bilancio, futili motivi e rancori personali la causa scatenante. Ai deceduti va aggiunto un ferito causale: un autista di un pulmino che transitava con a bordo sette bambini della scuola materna. Pochi centimetri, pochi attimi che avrebbero trasformato una notizia da pagina interna nella tremenda strage degli innocenti che riecheggia in tutto il mondo.
Analogie e differenze
Castel Volturno, 19 settembre 2008. La camorra uccide 6 africani, con un volume di fuoco di 130 proiettili. Solo la strage, solo un crimine tanto efferato scuote le coscienze ed accende l’attenzione dei media nazionali sul dramma dell’immigrazione in Campania.
Gli africani si ribellano. Inscenano blocchi e proteste, contro la camorra. E’ il primo movimento antimafia da basso e spontaneo della zona, è la prima bozza di ribellione ad un potere assoluto e brutale.
La presenza degli immigrati in Campania è relativamente stabile, a Rosarno è esclusivamente stagionale. Arrivano a novembre, vanno via di corsa all’inizio di marzo. La primavera è una stagione troppo bella per trascorrerla nella lugubre Piana di Gioia Tauro, e qui – oltre alla raccolta delle arance – le occasioni di lavoro sono pressoché nulle, inversamente proporzionali ai rischi per la pelle.
Altra differenza, la Campania – pur vivendo tragedie inenarrabili – riesce a “comunicare”, a raccontare i propri drammi attraverso una produzione culturale che ha ottenuto alti riconoscimenti a livello internazionale.
La Calabria è fuori dal mondo. Solo i crimini più spettacolari (un neonato ferito nel corso di un agguato, l’uccisione al seggio del vicepresidente del consiglio regionale, una strage con autobomba) riescono ad attrarre un’attenzione momentanea. Un delitto ordinario fa parte di una quotidianità da relegare nelle brevi.
La produzione culturale è pressoché inesistente. Cinema, teatro, editoria non riescono a raccontare la Calabria se non con poche eccezioni, spesso frutto di iniziative che partono “da fuori” o da calabresi “emigrati”.
Gli altri galleggiano nella rassegnazione, vittime di una mafia terrorista, di una politica che non ha in mente altro che la spartizione clientelare delle risorse europee, di un apparato statale che ha “viziato” la popolazione con un comodo assistenzialismo e che ora lentamente ma inesorabilmente smobilita, costringendo la generazione sotto i 35 anni ad una lenta e rancorosa emigrazione da Roma in su.
In questo orrendo antimondo, che si riproduce e sostiene con le briciole dei fondi europei, i narcoeuro della mafia, gli stipendi dimezzati dei centri commerciali, il fatalismo di una cultura contadina mai superata, l’emigrazione intellettuale dei tanti laureati, il miraggio del posto statale, in questo non-luogo dunque gli africani di Rosarno possono essere il punto di non ritorno che inceppa il meccanismo.
Praticamente tutti i reportage, con la lodevole eccezione del “Guardian” di Londra, descrivono Rosarno come un “inferno”. Gli immigrati vivono immancabilmente “in un lager”.
Nel corso di una intervista effettuata a Rosarno nel dicembre 2007, un testimone dice che uno degli antidoti all’assuefazione può essere un’ideologia basata sulla resistenza. Le lotte sociali dei decenni ’50, ’60 e ’70, unendo valori ed interessi materiali, hanno rappresentato un forte pericolo per le organizzazioni criminali sottraendo molto del consenso recuperato poi negli anni successivi.
Sarà sicuramente una coincidenza, ma nelle ore successive alla rivolta si segnalano in Calabria alcune operazioni di polizia contro i “clandestini”: il 15 dicembre, nei paesi del vibonese Limbadi (luogo di origine dei famigerati Mancuso) e Spilinga, non distanti da Rosarno, vengono arrestati 4 africani e 2 albanesi per inosservanza dei decreti di espulsione. Il 12 dicembre, i carabinieri di Soverato avviavano una “vasta operazione” nella frazione di Davoli Marina, conclusa col misero bilancio di un indiano arrestato per inosservanza del decreto di espulsione e altri due espulsi.
I tre consigli comunali della Piana (Rosarno, Gioia Tauro e San Ferdinando, pochi chilometri l’uno dall’altro) sono stati recentemente sciolti. Sulla costa degli Dei, invece, lungo il Tirreno, i comuni interessati da provvedimenti analoghi sono Briatico (2003) e Parghelia (2007).
Cronache locali del 16 dicembre 2008. I personaggi coinvolti non erano direttamente legati alla criminalità, a testimonianza di una diffusa cultura della violenza che ormai coinvolge larghe fasce della popolazione. Nella zona sono continui gli atti intimidatori contro privati così come nei confronti di mezzi di cantiere ed edifici pubblici.
Castelvolturno, rivolta degli immigrati dopo la strage di camorra, Corriere della Sera, 19 settembre 2008
Gli africani salveranno Rosarno?
Il consueto e l’inaccettabile. Il movimento antimafia degli africani
Nella terra senza speranza dei Casalesi, così come nel regno “infernale”[1] dei Pesce – Bellocco, sembra che gli italiani non abbiano più voglia o forza di ribellarsi. Nei decenni passati, campani e calabresi hanno probabilmente perso un duro scontro sociale, hanno patito e soffrono ancora delle azioni militari di clan che vogliono imporre il loro dominio attraverso la paura e l’azione terroristica, forse pagano più di quanto si possa pensare la crisi o la fine di strutture che si basavano su precise ideologie[2].
Sta di fatto che non ci si ribella più. In queste contrade dove la legge si scrive a colpi di kalashnikov, i fatti di cronaca più “efferati” sono ormai accolti con la stessa emozione con cui si ascoltano le previsioni del tempo.
Ci voleva, a Castel Volturno come a Rosarno, un pugno di africani per segnare la differenza tra il consueto e l’inaccettabile.
Per una crudele beffa del destino, le uniche rivolte contro le mafie più feroci d’Italia le hanno fatte delle “non-persone” senza diritti, documenti, identità; uomini consapevoli che alla fine della protesta avrebbero rischiato l’espulsione.
Dal 12 al 17 dicembre, pochi chilometri quadrati di territorio italiano sono sconvolti dalla violenza: il ferimento dei due ivoriani avvenuto nei pressi della cartiera di San Ferdinando, la strage di Briatico, l’omicidio di un bracciante a Rosarno[3].
I mass media, la politica e la stessa società civile reagiscono in maniera molto diversa. Suscita più emozione il ferimento non letale di quelli che sono definiti “fantasmi” o schiavi, ovvero due degli immigrati impegnati nella raccolta delle arance, che la morte tragica e violenta di tre cittadini dell’Unione Europea.
Il discrimine tra i due episodi è la rivolta dei neri da un lato, l’assuefatta indifferenza dei calabresi dall’altro.
Bombe, agguati, attentati, auto imbottite d’esplosivo, teste di animali mozzati, feriti in agonia nelle corsie d’ospedale sono gli episodi “colombiani” che trasformano da anni la cronaca regionale in un bollettino degno di una zona di guerra. “Si ammazzano tra loro”, “queste cose succedono anche altrove”, “i media evidenziano solo gli episodi negativi” sono le difese esili, i paraventi di carta velina, le scusanti demenziali a cui ormai non crede nessuno.
Poche ore dopo il ferimento del 12 dicembre, invece, oltre 400 stranieri di Rosarno si radunano in strada per una piccola rivolta che dura fino all’alba, di fronte la polizia in tenuta anti-sommossa[4].
Non sappiamo se col loro gesto gli africani salveranno Rosarno, o l’Italia imbrigliata dalla corruzione, impaurita dalla crisi, antropologicamente regredita. Certamente hanno già dato una fondamentale lezione.
Una strage di… italiani
Possono “consolarsi” gli africani. Il ferimento di due ivoriani ha fatto più notizia di tre calabresi morti ammazzati nel giro di 40 ore.
La sera del 17 dicembre, un bracciante agricolo di 63 anni è ucciso a Rosarno a colpi di pistola. Il cadavere è stato trovato dal figlio, in mezzo alle piante di kiwi del loro terreno, in contrada Olmelli. Uno dei tanti fotogrammi di quel film dell’orrore che è la cronaca nera dei paesi calabresi[5] .
Appena il giorno prima, una strage tra gli uliveti era avvenuta a Briatico, paese sul mare cristallino della costa degli Dei, non distante dalla Piana, il cui consiglio comunale a suo tempo era stato sciolto per mafia[6].
Due morti il bilancio, futili motivi e rancori personali la causa scatenante. Ai deceduti va aggiunto un ferito causale: un autista di un pulmino che transitava con a bordo sette bambini della scuola materna. Pochi centimetri, pochi attimi che avrebbero trasformato una notizia da pagina interna nella tremenda strage degli innocenti che riecheggia in tutto il mondo[7].
Analogie e differenze
Castel Volturno, 19 settembre 2008. La camorra uccide 6 africani, con un volume di fuoco di 130 proiettili[8]. Solo la strage, solo un crimine tanto efferato scuote le coscienze ed accende l’attenzione dei media nazionali sul dramma dell’immigrazione in Campania.
Gli africani si ribellano. Inscenano blocchi e proteste, contro la camorra. E’ il primo movimento antimafia da basso e spontaneo della zona, è la prima bozza di ribellione ad un potere assoluto e brutale.
La presenza degli immigrati in Campania è relativamente stabile, a Rosarno è esclusivamente stagionale. Arrivano a novembre, vanno via di corsa all’inizio di marzo. La primavera è una stagione troppo bella per trascorrerla nella lugubre Piana di Gioia Tauro, e qui – oltre alla raccolta delle arance – le occasioni di lavoro sono pressoché nulle, inversamente proporzionali ai rischi per la pelle.
Altra differenza, la Campania – pur vivendo tragedie inenarrabili – riesce a “comunicare”, a raccontare i propri drammi attraverso una produzione culturale che ha ottenuto alti riconoscimenti a livello internazionale.
La Calabria è fuori dal mondo. Solo i crimini più spettacolari (un neonato ferito nel corso di un agguato, l’uccisione al seggio del vicepresidente del consiglio regionale, una strage con autobomba) riescono ad attrarre un’attenzione momentanea. Un delitto ordinario fa parte di una quotidianità da relegare nelle brevi.
La produzione culturale è pressoché inesistente. Cinema, teatro, editoria non riescono a raccontare la Calabria se non con poche eccezioni, spesso frutto di iniziative che partono “da fuori” o da calabresi “emigrati”.
Gli altri galleggiano nella rassegnazione, vittime di una mafia terrorista, di una politica che non ha in mente altro che la spartizione clientelare delle risorse europee, di un apparato statale che ha “viziato” la popolazione con un comodo assistenzialismo e che ora lentamente ma inesorabilmente smobilita, costringendo la generazione sotto i 35 anni ad una lenta e rancorosa emigrazione da Roma in su.
In questo orrendo antimondo, che si riproduce e sostiene con le briciole dei fondi europei, i narcoeuro della mafia, gli stipendi dimezzati dei centri commerciali, il fatalismo di una cultura contadina mai superata, l’emigrazione intellettuale dei tanti laureati, il miraggio del posto statale, in questo non-luogo dunque gli africani di Rosarno possono essere il punto di non ritorno che inceppa il meccanismo.
[1]Praticamente tutti i reportage, con la lodevole eccezione del “Guardian” di Londra, descrivono Rosarno come un “inferno”. Gli immigrati vivono immancabilmente “in un lager”.
[2]Nel corso di una intervista effettuata a Rosarno nel dicembre 2007, un testimone dice che uno degli antidoti all’assuefazione può essere un’ideologia basata sulla resistenza. Le lotte sociali dei decenni ’50, ’60 e ’70, unendo valori ed interessi materiali, hanno rappresentato un forte pericolo per le organizzazioni criminali sottraendo molto del consenso recuperato poi negli anni successivi.
[3] Ansa, 18 dicembre 2008.
[4] Sarà sicuramente una coincidenza, ma nelle ore successive alla rivolta si segnalano in Calabria alcune operazioni di polizia contro i “clandestini”: il 15 dicembre, nei paesi del vibonese Limbadi (luogo di origine dei famigerati Mancuso) e Spilinga, non distanti da Rosarno, vengono arrestati 4 africani e 2 albanesi per inosservanza dei decreti di espulsione. Il 12 dicembre, i carabinieri di Soverato avviavano una “vasta operazione” nella frazione di Davoli Marina, conclusa col misero bilancio di un indiano arrestato per inosservanza del decreto di espulsione e altri due espulsi.
[5]Ansa, 18 dicembre 2008
[6] I tre consigli comunali della Piana (Rosarno, Gioia Tauro e San Ferdinando, pochi chilometri l’uno dall’altro) sono stati recentemente sciolti. Sulla costa degli Dei, invece, lungo il Tirreno, i comuni interessati da provvedimenti analoghi sono Briatico (2003) e Parghelia (2007).
[7] Cronache locali del 16 dicembre 2008. I personaggi coinvolti non erano direttamente legati alla criminalità, a testimonianza di una diffusa cultura della violenza che ormai coinvolge larghe fasce della popolazione. Nella zona sono continui gli atti intimidatori contro privati così come nei confronti di mezzi di cantiere ed edifici pubblici.
[8] Castelvolturno, rivolta degli immigrati dopo la strage di camorra, Corriere della Sera, 19 settembre 2008
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Il libro
La Spoon River dei braccianti
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